Da mesi attendevo con impazienza l’arrivo di questo concerto, forte del mio biglietto, prontamente acquistato un attimo dopo l’apertura dei botteghini. Siamo a Shoreditch, il nuovo indiscusso quartiere di tendenza londinese, non a torto ribattezzato “la nuova Soho”, nel quale converge gran parte della vita notturna più “underground” della città. La location del concerto, il Cargo, è nuova per me, ma si rivela subito azzeccata quanto ad atmosfera, design ed illuminazione. La sala dove si svolgerà il live è al momento inaccessibile, così non ci resta che sprofondare sui divanetti di pelle, cocktail alla mano, nell’attesa che si facciano le 20.30. Non passa molto tempo prima che nella sala da bar semi-deserta io mi accorga di una presenza eterea che si aggira come un fantasma attorno al banchetto del merchandising.
E’ proprio lei, Chelsea Wolfe, avvolta in un pellicciotto bianco che fa risaltare il candore del suo incarnato, diafano come la neve. E’ bellissima ma, più di ogni altra cosa, è alta, davvero tanto alta. Difficile che passi inosservata, eppure nessuno sembra notarla, nessuno le si avvicina e lei rimane lì a chiacchierare con quello che poi scopro essere Ben Chisholm, bassista nonché addetto ai synth/computer. Afflitta da dicotomie interne fisicamente dolorose, esito a lungo prima di vincere la timidezza e lasciare che l’ardire di avvicinarla vinca su ogni mia remora. Ed è così che, con la faccia somigliante ad una parte del corpo non meglio identificata, mi apposto dietro di lei – accorgendomi con somma mestizia che le arrivo appena alla spalla – e le chiedo di farci una foto insieme. Inaspettatamente, la “doom lady”, come la chiamano in molti, mi sorride e mi dice di sì, certo che sì. Il mio primo approccio diretto con la Wolfe contraddice l’idea che mi ero fatta di lei, non è affatto distante e distaccata come avevo immaginato.
Alle 20.30 finalmente ci lasciano entrare in quella che si rivela essere una saletta alquanto angusta ma tutto sommato dalla buona acustica. Ad aprire la serata ci sono i The Wytches, quartetto proveniente da Brighton sui quali merita di essere spesa qualche parola. Esteticamente non si presentano benissimo, lo ammetto. Dimostrano al massimo 15 anni, il cantante/chitarrista con i suoi capelli gonfi e lunghi sulle spalle ricorda un po’ un Hanson tinto e un po’ meno prepubescente, mentre gli altri due membri della band (ne manca uno all’appello stasera) hanno un taglio emo che non promette nulla di buono, eppure la loro musica è uno schiaffo in viso a piene mani. Oscilla tra il rock psichedelico anni ’60 – “Psychedelia” non a caso è il nome del loro album di debutto – e il grunge dei primi anni ’90. A dominare sono i riff di chitarra pungenti, i suoni dal retrogusto acidulo, un basso imponente, ma è soprattutto la voce roca e corrosiva che graffia il palato a farla da padrone. Una voce che sembra un misto tra Kurt Cobain, Brian Molko e Jack White. Particolarmente interessante è “Crying Clown”, pezzo dalla resa dal vivo a dir poco eccezionale.
Approfitto della fine dell’opening act, per guadagnare la seconda fila e assistere alla minuziosa preparazione scenica del live di Chelsea Wolfe. Il palco viene ricoperto di candele e l’atmosfera si fa subito più intima, come se stessimo per assistere ad una strana sorta di rito religioso piuttosto che ad un live. L’impressione è rafforzata anche acusticamente grazie ai lamenti clericali à la Gyorgi Ligeti che accompagnano l’attesa. Poco prima delle 21.30 eccola salire sul palco. Indossa un lungo vestito nero che lascia intravedere un vistoso tatuaggio sull’avambraccio sinistro, raffigurante un’aquila ad ali spiegate. E’ di una bellezza eterea, difficilmente definibile a parole e la sua voce non è altro che la cassa di risonanza del suo fascino ammaliante.
Si muove leggiadra, imbraccia la chitarra acustica e, accompagnata dagli archi di un violino, intona le note di Appalachia. Questa canzone riporta alla mente quelle montagne tra i boschi del nord della California dove Chelsea è nata e cresciuta, quella stessa natura incontaminata da lei ora rievocata. La prima parte del set è contraddistinta dalla predominanza assoluta dell’ultimo lavoro “Unknown Rooms: A Collection of Acoustic Songs”, un album che invita l’ascoltatore a visitare le “stanze sconosciute” e dimenticate dall’anima, elette da Chelsea a rifugio personale, se non a dimora. In sequenza si susseguono l’intensa e malinconica Spinning Centers, la brevissima I Died With You, canzone della durata di 30 secondi, composta semplicemente dalle voci di Chelsea e della violinista che si sovrappongono, e la struggente Our Work Was Good che con le sue le armonie vocali ipnotiche ammutolisce l’intera sala.
L’impressione che si ha è che il pubblico trattenga il respiro durante la sua performance per poi esplodere in un lungo applauso liberatorio al termine di ogni canzone. A scandire il procedere di questa prima parte acustica del live la meravigliosa Flatlands, un omaggio vagamente folk a quelle “terre desolate” da lei tanto agognate. “I don’t want precious stones, I never cared about anything you’ve ever owned, I want flatlands, I want simplicity, I need your arms wrapped hard around me”, canta Chelsea mentre si lascia accarezzare dalle note del violino, svelando un lato intimamente romantico. Il brano che conclude questa prima parte acustica del live è Boyfriend, una ballata molto cupa e malinconica che si chiude con un lugubre arpeggio affidato al synth. L’atmosfera è solenne, quasi religiosa, e la sua voce quanto di più naturale possa esistere, come se non compisse il minimo sforzo per articolare i suoni.
Chelsea scompare dal palco e assistiamo all’arrivo dei nuovi elementi di questa seconda parte del live: il batterista Dylan Fujioka e il chitarrista Kevin Dockter. I suoni essenziali della chitarra acustica e dei violini lasciano spazio a quelli decisi e rabbiosi delle chitarre elettriche e al suono sporco e distorto del Rickenbacker di Ben Chisholm, mentre la Chelsea Wolfe acustico-intimistica lascia spazio all’artista che accarezza il suo lato più doom e rock con le unghie ben affilate. Il primo pezzo a fungere da cerniera tra i due mondi musicali della serata è Kings, inedito dalle tinte marcatamente trip hop che comparirà nel prossimo attesissimo album. Tuttavia, è il lungo giro di batteria di Demons, subito affiancata dalla chitarra e dagli acuti taglienti, quasi gregoriani, della Wolfe a sancire ufficialmente questo passaggio.
Quello che segue è un trionfo di grandi classici, tutti contenuti nell’album “Apokalypsis”: Mer, un piccolo capolavoro di atmosfere sensuali e suoni incalzanti che ricordano un rituale tribale dal sapore lontanamente diabolico; Tracks (Tall Bodies), pezzo di una malinconia assoluta, senza vie d’uscita e Moses, che ricorda una Pj Harvey degli inizi, ma molto più viscerale. Su Movie Screen, tragicamente intensa e dalle ambientazioni trip hop, la Wolfe porta una mano sul volto, quasi a volerlo celare, quasi a volersi perdere nella musica, nelle parole, nelle sensazioni e in quei “sentori d’apocalisse” da lei celebrati. Della sua infatuazione con la morte Chelsea non ha mai fatto mistero, sostenendo che in più circostanze la morte è stata proprio la sua musa ispiratrice. Tuttavia, in una recente intervista ha dichiarato: “All of my songs have to do with death because I’ve never really had to deal with it” (Tutte le mie canzoni trattano il tema della morte, forse perché non ho mai dovuto affrontarla direttamente).
Uno degli apici della serata è rappresentato da Pale On Pale, pezzo dal sapore fortemente doom, scandito da una batteria che, come una marcia solenne, accompagna il lamento del cantato. La parte finale della canzone è un lungo muro di suono rumoroso, caotico, segnato da un virtuoso assolo di batteria, il termine del quale segna la fine dello show. Un solo encore, Echo, cover dei Rudumentary Peni che ricorda fin troppo i Dead Can Dance e Chelsea si congeda, dopo aver velocemente ringraziato il pubblico. Sono molte le influenze che possono essere ravvisate nella sua musica. La già citata Pj Harvey sopra tutte, ma è possibile avvertire anche un tocco di Siouxsie qua e là, eppure la Wolfe è semplicemente se stessa. Un’artista profondamente ispirata, infestata da demoni e angosce, che per un po’ stasera ha smesso i panni della regina delle tenebre per accoglierci nelle sue intime stanze, salvo poi stordirci a tradimento e riportarci prepotentemente nella gabbia dei leoni. Chelsea Wolfe resta una gemma rara il cui talento è ufficialmente sancito dalla resa live. Un live set sapientemente congegnato e ben equilibrato. Se dovessi sommare in una frase le mie impressioni di questo concerto direi soltanto: Best new act of the decade.
SETLIST: Appalachia – Spinning Centers – I Died With You – Our Work Was Good – Flatlands – Boyfriend – Kings – Demons – Mer – Tracks (Tall Bodies) – Moses – Movie Screen – Feral Love – Pale On Pale —encore— Echo (Rudimentary Peni cover)