Seconda serata del Magnolia Parade, festival a cadenza annuale che vede coinvolti nomi più o meno noti dello scenario rock ed elettronico contemporaneo. Seconda serata che per noi comincia un po’ in ritardo, alle 21:25 quando i Fratelli Calafuria sono a metà del loro penultimo brano in scaletta e ci tocca quindi vederli e sentirli per cinque minuti scarsi prima che il trio sgomberi il palco per il Il Teatro Degli Orrori. Capovilla e compagni non paiono affatto provati dai mesi di tour ininterrotto, a dispetto di un volume troppo basso per le prime due canzoni (La vità è breve, E’ colpa mia) che inducono un paio di individui a urlare in continuazione “volume, alza sto cazzo di volume” – come se dovesse essere la stessa band a farlo e non il tecnico al mixer – e a risultare più fastidiosi del limite di decibel. La faccenda si risolve quando attacca A sangue freddo, anticipata dal consueto prologo di Pierpaolo sulla vicenda di Ken Saro-Wiwa. I nostri procedono spediti, ogni tanto con qualche sbavatura in alcuni passaggi un po’ scomposti, ma nulla di grave. Molto toccantiMajakowskij, riarrangiata con un continuo susseguirsi di stacchi e ripartenze, e la conclusiva La canzone di Tom, che dal vivo non perde un briciolo della sua commovente essenza. Quaranta minuti sul palco, gli stessi concessi ai londinesi Chrome Hoof, per noi la band più attesa anche perché l’unica ancora non testata dal vivo. Compaiono sulla ribalta dopo un cambio palco lungo quasi mezz’ora, sono in otto, quattro uomini e altrettante donne: i primi in lunghi sai neri con cappuccio del medesimo colore come se fossero in procinto di officiare il rito di una loggia massonica; le seconde con anch’esse tute con cappuccio, stavolta dorate lucide e piene di lustrini. L’eccezione è la front-girl Lola Olafisoye, una sorta di futurista Athena nera con uno spacco fino ai glutei che ha generato un tripudio di fuochi d’artificio al testosterone. Vederla muoversi sul palco, dobbiamo ammetterlo, è stato un piacere. Ma, fronzoli maschilisti e perversi a parte, la formazione inglese, dal vivo, moltiplica esponenzialmente la propria forza d’urto e dimostra in tutto e per tutto il bagaglio tecnico in possesso ai suoi componenti. Il loro è prog? E’ rock? E’ elettronica? E’ funky? E’ tutto questo insieme, masticato e sputato sotto forma di tortuosi quadri dalla tela d’acciaio. Scaletta che predilige, come era prevedibile, il materiale del recente “Crush Depth”, anche se le danze si aprono con Moss Covered Obelisk, quinta traccia del loro secondo lavoro “Pre-Emptive False Rapture” del 2007. Precisi e potenti nei frangenti più metallici, coinvolgenti quando la cassa continua incalza, i Chrome Hoof dimostrano di saper riproporre dal vivo con estrema fedeltà le complicate architetture delle proprie creazioni. Passano in rassegna Bunkers Paradise, One Day, Labyrinth, Crystalline. Ad un certo punto, però, qualcuno del pubblico nei nostri pressi decide di rilasciare un mefitico gas con la speranza di non seminare tracce acustiche, coperto com’era dall’energia sprigionata dai Chrome Hoof. L’anonimo bombardiere in effetti tale rimarrà, con buona pace delle nostre ghiandole olfattive oppresse dalla sua bravata e che non potranno così essere vendicate. Menomale che il concerto è all’aperto, pochi secondi di pena e tutto torna alla normalità. Tutto tranne quello che sta accadendo sul palco, con Lola che si muove sinuosa sulle sincopi del resto della banda, che ha anche due keyboards, fiati e violino al seguito. Chiudono il set con la strepitosa Tonyte, furibonda nel suo vorticoso groove, davvero il pezzo da novanta della loro discografia. Soddisfatti come dopo esserci ingozzati ad un buffet con portate pregiate, girovaghiamo per gli stand – sia di gadget, oggettistica, ma anche musicali – e ritorniamo nei pressi del palco quando sono già in azione i Bonaparte, formazione punk-funk tedesca con due album all’attivo. Invero poca cosa da un punto di vista musicale, le canzoni sono facilotte e banali, niente di troppo impegnativo sia per chi ascolta e, supponiamo, sia per la band stessa quando in sala prove le ha scritte, ma il limite musicale – di certo dettaglio non trascurabile – è furbamente bilanciato da una presenza scenica molto teatrale, con individui dalle maschere e costumi bizzarri che si susseguono sul palco improvvisando movenze e balletti sgangherati che catturano per intero l’attenzione della platea, dando così vita ad un grottesco carnevale fuori stagione. Abbandoniamo l’ormai sovraffollato Magnolia poco prima della fine dell’esibizione dei Bonaparte, i quali avranno lasciato spazio ad Alex Kapranos, cantante e leader dei Franz Ferdinand, che ha anche lui aderito alla moda dei dj-set giusto per mantenersi un po’ impegnato. Non crediamo di esserci persi chissà cosa.
A cura di Marco Giarratana