Lo dice lo stesso Immerwahr a un certo punto del concerto: “Eravamo qui undici anni fa e non credevamo saremmo mai potuti ritornare”. Perché già allora i Codeine erano dei reduci, di un decennio immortale, gli anni ’90, di cui non erano certo stati le stelle più luminose (per non-immediatezza della loro musica, per concetto e per propensione umana dei tre) ma che avevano marchiato a fuoco tracciando le bisettrici di un intero genere: lo slowcore, o sadcore che dir si voglia. Ritmi dilatati, progressioni narcolettiche, pelle d’oca a palate. Così l’appuntamento − unico per l’Italia − al Locomotiv Club di Bologna è diventato una sorta di ritrovo per nostalgici, con l’età media del pubblico inevitabilmente “matura”.
La band non ha nulla di significativamente nuovo da proporre da ormai una valanga d’anni (sì, c’è l’album perduto e “ritrovato” recentemente “Dessau”, tirato fuori lo scorso anno da un cassetto rimasto chiuso fin dal 1992), quindi il salto a ritroso nel tempo è vertiginoso e arriva direttamente al 1990, a “Frigid Stars”, a quel disco che ha consegnato i Codeine agli annali e che tutti, in sala, conoscono a menadito e aspettano come un messia sceso per lenire un’inguaribile e generazionale tristezza. E Stephen Immerwahr, Chris Brokaw e John Engle non si fanno certo pregare, sono lì per questo e iniziano col botto con D: qualcuno socchiude gli occhi, qualcun altro è già visibilmente provato, immobile all’ascolto della voce tremolante di Immerwahr che sussurra “I want you to need me, not to feed me”.
È chiaro che, come da manuale della vita, il tempo finisce per lenire ogni ferita, e quei ragazzi che nella New York di inizio anni ’90 si specchiavano nelle proprie fragilità, oggi sono sessantenni − o giù di lì − che hanno superato tutto: quelle fragilità, le insicurezze, persino la propria relazione con la popolarità (se di popolarità si è mai potuto parlare riguardo a una band decisamente di culto come i Codeine). Lo hanno fatto loro e lo ha fatto anche chi li sta ascoltando giù dal palco. Ma va da sé che ci sono pezzi cui è impossibile resistere, che ti ricacciano indietro in un agrodolce e disorientante viaggio in slow motion. C’è Barely Real dall’omonimo EP del ’93, c’è una Pick Up Song che ti squarcia il cuore con quelle cinque righe appena (“Don’t remember your kiss / Can’t remember what I miss / Thought you were blind, I held your hand / Just guess I still don’t understand / Wish I’d never seen your face”), ci sono ovviamente Pea e una Cave-In che, richiesta a gran voce dal pubblico (ma i Codeine avevano già deciso di farla), dà l’annichilente mazzata finale, con Brokaw che lascia le pelli per imbracciare il basso di Immerwahr.
Il viaggio nel tempo dei Codeine e di chi stava lì ad assorbirli si conclude dopo un’ora e un quarto, ma nella sostanza sotto gli occhi di tutti (tanto sopra quanto sotto il palco) sono passati anni su anni su anni, decenni di ascolti ripetuti di una manciata di incisioni che oggi come dieci, venti e trent’anni fa ti devastano ogni santissima volta. Magari ci sarà una prossima volta, magari potremmo non dover aspettare altri undici anni prima di rincontrarci con Immerwahr, Brokaw ed Engle. O magari potrebbe non accadere mai più, chi lo sa. La cosa fondamentale, in questo 5 Settembre 2023, era esserci.