Ci sono svariati modi di raccontare un concerto. A volte basta semplicemente mettere in risalto un dettaglio, anche il più insignificante, magari captandolo tra il sudore della folla o, meglio ancora, lassù sul palco in mezzo ai cavi delle chitarre e alle scalette (calpestate) tenute a bada dal nastro adesivo. Altra via percorribile è partire dalla pura intuizione emotiva – quasi sempre vergognosamente faziosa – e gettare giù quattro righe dal sapore squisitamente confidenziale, nella speranza che la buona volontà del lettore di turno non sia andata in ferie quel giorno. C’è poi la soluzione del resoconto de relato, una testimonianza altrui la cui peculiarità evade dai noiosi confini del banale. Sorpresa delle sorprese, anche la cronaca del concerto romano dei Cure tenutosi lo scorso 11 ottobre nell’ambito del Coca Cola Live MTV, sembrerebbe prestarsi perfettamente a ciascuno dei modus narrandi appena descritti.
Il pubblico dei Cure: Data la particolare natura della serata – la band di Robert Smith presenta in anteprima planetaria i tredici brani del nuovo album 4:13 Dream – preziosi spunti di riflessione vengono offerti dal contesto stesso in cui lo show si è svolge. Tralasciando ogni commento sugli altri nomi in cartellone (e non per fare chissà quale forma di facile ironia, ma soltanto in virtù del fatto che chi vi scrive ha assistito esclusivamente all’esibizione dei Cure, ndr) e sullo spiacevole ma allo stesso tempo spassoso equivoco di chi tra i presenti scambia il leggendario quartetto per una emo-band di primo pelo, è interessante soffermarsi su quello che, a nostro avviso, rappresenta un aspetto di massima rilevanza socioculturale: l’eterogeneità del pubblico di fede “curiana”. Immancabile ecco comparire tra le prime file l’esercito dei cloni (il cui make-up, di anno in anno, mette in bella mostra sempre più varianti), per i quali poco conta che si pianga o che si rida, ciò che conta è che Robert se ne stia lì, davanti ai loro occhi imploranti, pronto a ricevere la giusta venerazione. Segue la compagine di maggioranza, quella dei cosiddetti “cure-dipendenti”; costoro – che vale la pena rammentare, conoscono a memoria l’intero repertorio della band (b-sides comprese) – hanno un tonfo al cuore qualsiasi cosa Smith sussurri al microfono e non fanno segreto di essere alquanto emozionati (per non dire tesi) perché “questa” è la notte dei nuovi pezzi ancora inediti. Più defilato il gruppo dei dissidenti, come sempre concentrati nell’intento di autoconvincersi che i Cure, con o senza tastiere, siano ormai giunti al capolinea. C’è spazio anche per i ragazzi del club “gratis è bello”, la cui unica preoccupazione è “ballare” e aspettare una Close to me che non arriverà mai.
Il nuovo album dei Cure: Che giudicare un album sulla scorta del solo ascolto dal vivo sia uno degli errori più grossolani in cui il buon commentatore musicale possa cadere, è lapalissiano. Tuttavia, complice il fascino indiscreto tipico di ogni preview che si rispetti, non possiamo esimerci dall’offrirvi in questa sede (rimandando per qualsivoglia ulteriore approfondimento alla recensione cibicidiana che accompagnerà l’uscita di “4:13 Dream”, prevista per il prossimo 24 ottobre) alcune nostre brevi considerazioni. Il tredicesimo lavoro in studio di Smith e soci – cui dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) fare seguito in aprile una quattordicesima puntata molto più dark oriented, ndr – si presenta, almeno nella sua mera esecuzione concertistica, come un’opera di assoluta coralità strumentale, il cui approccio stilistico rimanda, con le dovute proporzioni, ai fasti dell’era “Kiss Me Kiss Me Kiss Me” (non è un caso, infatti, che tale accostamento sia stato più volte tirato in ballo durante le interviste promozionali rilasciate negli ultimi mesi). Il sound della band appare forte e compatto, costruito e modellato con mestiere, sotto l’attenta vigilanza della batteria di Jason Cooper, intorno alle linee di basso di Simon Gallup e alla lead guitar di Porl Thompson. Il tutto al completo servizio di “capitan” Smith e della sua voce, sublime ed impeccabile come sempre. Se The only one, Freakshow, Sleep when I’m dead e The perfect boy, ovvero i quattro singoli di lancio prescelti, scivolano via senza lasciare traccia alcuna di sé, lo stesso non può dirsi di pezzi come Underneath the stars,This. Here and now. With you, Scream e Sirensong (quest’ultima impreziosita da una vintage lap steel), vere e proprie gemme dei Cure del nuovo millennio. Pare che il vento del rock soffi nella giusta direzione e che il vascello di Smith abbia le vele ben spiegate, il che di fatto fa sì che brani come The hungry ghost e It’s over, pur nulla aggiungendo ad una carriera lunga tre decadi, descrivono con precisione lo stato di salute di una band che ha ancora tanta voglia di divertirsi.
Dentro il concerto dei Cure: C’è chi il concerto dei Cure, invece, lo ha solo “sentito” perché impegnato dietro le quinte, come il nostro caro amico Michele che ci ha gentilmente fatto dono delle due foto di cui sopra. Il backstage c’è stato descritto come un qualcosa di blindato ed inaccessibile, al quale nessuno ha potuto avvicinarsi. Un isolamento che trova una sua ragion d’essere non tanto in un eccesso di divismo – patologia di cui i nostri non hanno, ad onor del vero, mai sofferto – quanto in una necessità d’intimità, prima dell’evento, che ha del tutto avvolto la band. Un’atmosfera incantata intervallata da una serie di gesti che gli addetti ai lavori, dalla sicurezza al più indaffarato dei macchinisti, non hanno potuto fare a meno di notare, come quando Jason, a pochi momenti dall’ora X, se ne sta ancora lì sul retro del palco a “scaldarsi” con i suoi tamburi (nonostante l’interminabile soundcheck del giorno prima) o come l’abbraccio fraterno fra Robert e Simon tra il primo ed il secondo atto. Forse è da questi piccoli particolari che la percezione di trovarsi dinanzi a delle vere e proprie leggende viventi, diventa pura convinzione. Pertanto, nulla da meravigliarsi se alla fine della fiera i Cure siano riusciti ancora una volta a stoppare il tempo e a rendere indelebile nel cuore dei presenti il ricordo di questo strano sabato ottobrino. E poi c’è la magia delle loro canzoni, nuove o vecchie che siano, quelle che non sai mai se potrai riascoltare ancora una volta, così come ci ricorda la sirena cantata da Smith in “Sirensong”: “…and you will never hear this song again”.
SETLIST: Underneath The Stars – The Only One – The Reasons Why – Freakshow – Sirensong – The Real Snow White – The Hungry Ghost – Switch – The Perfect Boy – This. Here and Now. With You – Sleep When I’m Dead – Scream – It’s Over —bis— Lullaby – Fascination Street – Wrong Number – The End of the World – The Walk – Lovesong – Friday I’m In Love – Inbetween Days – Just Like Heaven – Boys Don’t Cry
* Foto a cura di Michele Caserta
A cura di Vittorio Bertone