È trascorso quasi un anno dalla pubblicazione di “Minus”, il suo devastante esordio da solista, e ancora si fa fatica − e probabilmente si continuerà a farla a tempo indeterminato − a penetrare appieno nella musica di Daniel Blumberg. Ha una scrittura tanto scarna da far diventare ogni sua frase una sorta di mantra, ma le seppur poche parole che pronuncia sono un muro difficilissimo da abbattere per scoprire e comprendere cosa ci sta dietro.
Alla Triennale di Milano Blumberg arriva con la formula “in trio”, accompagnato da Billy Steiger e Tom Wheatley rispettivamente a… sì, violino e contrabbasso, ma in realtà loro, così come lo stesso Blumberg, mettono in piedi una rappresentazione non esclusivamente e classicamente musicale in cui il rumorismo la fa da padrone. Se già su disco è lì che Blumberg gioca, sulla contrapposizione tra melodie e destrutturazioni delle stesse, dolcissimi tasti di pianoforte e noise da officina, dal vivo e nello specifico insieme a Steiger e Wheatley la cosa si amplifica a dismisura. In pratica i cento minuti di performance del trio scorrono senza soluzione di continuità, tanto che il primo applauso riesce a esplodere solo a chiusura del set principale.
Nel mezzo, i pezzi vengono dilati all’inverosimile: i dodici minuti di Madder, ad esempio, diventano venticinque, forse persino qualcosa in più, minuti in cui Blumberg recita pochi versi ma soprattutto si siede al piano, lo picchia, poi prende l’armonica, ci soffia dentro, poi prende una tazza e ci versa del vino, lo beve, lo ribeve, poi posa la tazza e afferra un effetto che per l’intero concerto si trascinerà dietro e verrà preso a calci producendo un lacerante e secco rumore. Gli altri due si accaniscono su un grosso parallelepipedo di polistirolo, lo girano su se stesso, fanno stridere gli archetti sfregandoglieli contro, il tutto in una spiazzante coordinazione con Blumberg.
Lui, come sempre, non ha la seppur minima voglia di aprirsi, resta per tutto il tempo con la visiera del cappellino calata sul viso, le mani infilate spesso nelle grandi tasche del suo giaccone di pelle, i tic sempre sul punto di prendere il sopravvento su tutto il resto. La rappresentazione (in quanto reinterpretazione) delle tracce di “Minus” è ostica, bisogna ammetterlo, perché i tre ne sconvolgono le strutture, le rendono largamente irriconoscibili e, soprattutto, gli rubano completamente l’anima. Quel poco di calore che trapela su disco, sul palco del Teatro dell’Arte viene risucchiato dagli aspirapolvere che spuntano sul palco sul finale, lasciando un guscio di cinismo e dolore, graffi e spilli conficcati nella carne.
Alla fine, quando anche i rumori dal backstage diventano parte integrante dell’arte del trio, quando Blumberg trova per un attimo la forza di tirare su la visiera e regalare uno sguardo alla sala, la faccia dei presenti è il più emblematico dei commenti possibili: stupore, immedesimazione e infine silenzio, lo stesso silenzio scrosciante provenuto fino a qualche minuto prima dagli strumenti e dal materiale sul palco.