Nonostante i Pearl Jam siano passati tante, tantissime volte dalle nostre parti, Eddie Vedder non aveva ancora avuto modo di salire su un palco italiano in solitario, da quando ha inaugurato la sua nuova carriera parallela. Quella del Firenze Rocks è dunque per lui una prima volta assoluta, in un Paese che gli è caro per diversi motivi fra cui – come ricorderà lui stesso nel corso della serata – quello di esser stato teatro del suo matrimonio. Il pubblico della Visarno Arena è immenso, oltre 40 mila persone per quella che è finora la platea più grande cui Vedder si è mai rivolto senza il supporto degli amici di una vita dei Pearl Jam.
Oltre 40 mila persone per un concerto in gran parte acustico (“Domani vedrete due grandi band come System Of A Down e Prophets Of Rage…” – dirà riferendosi alla terza e ultima giornata del Firenze Rocks – “…stasera invece avete un ukulele!”) di un uomo che per gran parte starà lì da solo a incantare con la sua voce, circostanza tutt’altro che comune se si escludono mostri sacri come Bob Dylan e pochissimi altri. Vedder però ha dalla sua una sinergia con il pubblico, con qualsiasi pubblico a qualsiasi latitudine, che va oltre il rapporto artista/fan per diventare quasi parentale, un fratello maggiore che col suo fare cordiale e mai sopra le righe trova sempre le parole giuste per ciascuna situazione.
A Firenze di parole ne scorrono a fiumi per più di due ore, da quelle scritte per e con i Pearl Jam (vedi l’inizio affidato a Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town, Wishlist e Immortality) a quelle, tante, scritte da altri e fatte proprie da Vedder per rimpolpare le sue setlist: c’è Cat Stevens con Trouble, c’è il maestro Neil Young con The Needle And The Damage Done e il classico conclusivo Rockin’ In The Free World, c’è John Lennon con l’immortale Imagine per la quale Vedder invita il pubblico a illuminare l’arena con i propri telefoni, ci sono soprattutto i Pink Floyd dell’amico Roger Waters, omaggiati con Brain Damage e un’intensissima versione per organo di Comfortably Numb.
Sul palco, allestito con un tappeto, qualche luce, un paio di valigie e delle bobine, l’apice, come sempre accade anche nei live dei Pearl Jam, lo tocca quella che è con poco margine di dubbio una delle più commoventi canzoni d’amore mai scritte: Black. Vedder chiede al pubblico di supportarlo vista l’assenza della sua band, porta per le lunghe il pezzo e sul finale si lascia andare in un ripetuto “come back” a occhi chiusi e finché la voce non gli si spezza nella commozione: l’amore è anche quello per un amico, magari un amico scomparso, e senza sensazionalismi Vedder sta affrontando a modo suo e col massimo della dignità la morte di Chris Cornell. Una botta per un’intera generazione, figuriamoci per lui che c’ha condiviso palchi e momenti sostanziosi di vita artistica e non.
Le reinterpretazioni in chiave minimale di classici dei Pearl Jam come Sometimes, Porch, Better Man e MFC o delle più recenti I Am Mine, Can’t Keep e Unthought Known, s’incastrano alla perfezione con i brani scritti da Vedder per quel gioiello che è la soundtrack di “Into The Wild”: Far Behind, Setting Forth, Guaranteed, Rise, Society fino alla chiusura definitiva affidata ad Hard Sun. Conclusione per la quale Vedder si fa accompagnare da Glen Hansard (già esibitosi in apertura) in un incastro di voci convincente nella loro evidente diversità.
Vedder, come si diceva, ha un rapporto carnale col suo pubblico, gira a qualcuno delle prime file una bottiglia di vino (che lui stesso consumerà copioso insieme ad altri alcolici che lo rendono visibilmente brillo, tanto da fargli dimenticare in un paio di passaggi i testi delle canzoni), si getta tra la folla nel finale, parla tantissimo e spesso a capo chino, quasi intimorito da una platea grande che senza Stone, Jeff, Mike e Matt alle spalle forse gli sembra persino un tantino più imponente.
Alla fine, ciò che resta è la straordinaria performance di un artista dotato di una voce che migliora col tempo come il buon vino, che ha perso un po’ di graffio ma al contempo ha acquisito profondità. Se a Firenze è stata una catarsi, figuriamoci cosa potrà essere nell’impressionante cornice del Teatro Antico di Taormina per le rimanenti due date in Italia.
SETLIST: Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town – Wishlist – Immortality – Trouble (Cat Stevens cover) – Brain Damage (Pink Floyd cover) – Sometimes – I Am Mine – Can’t Keep – Sleeping By Myself – Far Behind – Setting Forth – Guaranteed – Rise – The Needle And The Damage Done (Neil Young cover) – Unthought Known – Black – Lukin – Porch – Comfortably Numb (Pink Floyd cover) – Imagine (John Lennon cover) Better Man – Last Kiss (Wayne Cochran cover) – Untitled – MFC – Falling Slowly (The Swell Season cover) – Song Of Good Hope (Glen Hansard cover) – Society (Jerry Hannan cover) – Smile – Rockin’ In The Free World (Neil Young cover) —ENCORE— Hard Sun (Indio cover)