Per la seconda sera di fila mi ritrovo sul double-decker, emblematico autobus a due piani londinese, diretta a Brixton. La Brixton Academy, paradiso di noi giovani – e meno giovani – cultori della musica internazionale live, baluardo rock – e meno rock – di tutto il Regno Unito. Ho fatto lo stesso tragitto ieri, per vedere gli Incubus. Bel concerto, bella energia, ok. Ma anche a loro, come al resto del mondo, tocca inchinarsi dinnanzi a Mike Patton e alle sue infinite manifestazioni. I corsi e ricorsi storici vogliono che stasera i Faith No More suonino nella stessa venue in cui ben ventidue anni fa registrarono il loro celeberrimo live at Brixton, di cui quasi tutti i fan hanno visto la videocassetta almeno un centinaio di volte. Durante il breve viaggio penso: “Luglio, questo sconosciuto”. Sono mesi che aspettavo questo concerto. Mesi che lo associavo alle torride temperature dell’estate, alle ascelle pezzate e alle canottiere anni ’90. No, l’estate a Londra semplicemente non esiste e vedere un concerto a Luglio significa vederlo in una giornata qualunque di un anonimo Novembre travestito da Luglio, nella quale puoi ritenerti fortunata se smette di piovere per 20 minuti consecutivi. Arrivati a Brixton intravedo un raggio di sole. Un segno del destino, mi dico. Ci mettiamo in fila e mi rendo conto di essere attorniata da nostalgici in tenuta anni ’90, tutti lì per lo stesso identico motivo: un ritorno al passato in vecchio stile. E come sorvolare sull’aneddoto riguardante la gioviale donna frustrata della sicurezza che, al momento di perquisire la mia microscopica borsa, mi ha fatto buttare via le gomme da masticare? Sì, mi ha ferocemente invitata a buttare il mio pacchetto di gomme perché potevano «essere pericolose» se lanciate addosso al pubblico o alla band. Inoltre, alla mia richiesta di farmene prendere almeno una per togliermi l’amaro in bocca che mi aveva lasciato, mi ha acidamente minacciata di non farmi entrare a vedere il concerto. Rinuncio alle gomme da masticare, armi di distruzione di massa del nuovo millennio, e mi avvio verso la mia postazione.
Una postazione sulla quale è necessaria una confessione/precisazione: “Mi chiamo Chiara e ho scelto di vedere i Faith No More da seduta sugli spalti sopraelevati”. Ho ricevuto ondate di scherno inenarrabili dopo aver confessato il mio insano gesto, ma urge mettere in chiaro che sono alta un metro e una scheda telefonica, nemmeno il potere degli anfibi con la punta di ferro mi avrebbe salvata da una morte certa in mezzo al pogo selvaggio per i Faith No More. Per di più, ho goduto di una visuale perfetta senza la quale avrei avuto ben poco da recensire. Prendiamo posto e sul palco c’è già la special guest della serata: Martina Topley Bird, cantautrice nota per le sue collaborazioni con artisti del calibro di Massive Attack, Gorillaz e Queens Of The Stone Age, dalla voce a dir poco angelica. Il suo progetto solista, tuttavia, è qualitativamente diverso. Ho la sensazione, e non sono la sola, che Martina stoni un po’ in questo contesto. In molti la fischiano, altri applaudono educatamente consci che la fine di ogni sua canzone accorcia l’attesa per i Faith No More. Lei resiste, stoica ed imperturbabile, fino alla fine del suo set.
Ma parliamo di cose serie adesso. L’attesa cresce, diventa febbrile. Con un sorriso storto noto il modo quantomeno bizzarro in cui stanno allestendo il palco. Tutto è minuziosamente bianco: la moquette per terra, i sipari che somigliano più a delle tende per il soggiorno, gli amplificatori e le testate, anch’essi avvolti in lenzuola bianche, le aste dei microfoni, la tastiera, il leggio, perfino i roadies sono tutti vestiti di bianco. Come se non bastasse, per aggiungere un tocco di surrealismo all’ambientazione, il palco viene ricoperto di vasi pieni di fiori. Decine e decine di vasi di fiori. Difficile definire la sensazione che ne deriva. Sembra di essere in un ospedale psichiatrico, o peggio, al festival di Sanremo. Alle 21.30 in punto si abbassano le luci. Il pubblico è in delirio. Mente umana non sarà mai in grado di spiegare a parole quello che ho provato nel momento in cui le luci sono state puntate su Roddy Bottum ed il suo ditino ha iniziato a pigiare i tasti della tastiera anticipando le note di Woodpecker From Mars. Per non parlare del boato della batteria di Mike Bordin che annuncia che la festa è ufficialmente cominciata. Se fossi stata sotto, in mezzo alla bolgia infernale, avrei dovuto lottare per la sopravvivenza, invece posso sgranare gli occhi e lasciare che il nodo alla gola mi strazi, trattenendo le lacrime per l’emozione.
E poi eccolo lì. Mike Patton. L’uomo che tutto può. Inutile cercare di elencare le sue creazioni di successo (Mr. Bungle, Tomahawk, Peeping Tom, Lovage), basti dire che Mike Patton è il Re Mida della musica. “I don’t trust anyone who doesn’t like Mike Patton”, disse qualcuno non a torto. Naturalmente anche i membri del gruppo sono vestiti di bianco, in un perfetto pendant con l’arredamento poco sobrio del palco. Lui, Mike, la primadonna, ha aggiunto qualche tocco di classe: il Panama, un fazzoletto rosso che pende dalla tasca dei pantaloni e qualcosa che rassomiglia vagamente a delle collanine di perle a mo’ di tracolla. Oscilla tra il turista venezuelano ed il narcotrafficante colombiano, ma è pur sempre una visione mistica. Intona Delilah, cover di Tom Jones, che a sua volta si intona con la sua mise e la intermezza poi con “Woodpecker From Mars” in un medley che ha dell’onirico. Tocca a Midlife Crisis. Un’esecuzione impeccabile. Anche qui, i Faith No More si fanno trasportare dalla febbre del medley e a metà canzone arrangiano un frammento di C’est La Vie di Jacques Dutronc (e ammetto che sentire cantare Patton in francese è un’esperienza ultraterrena), mixandola poi con il ritornello di “Midlife Crisis”.
Quello che segue è un’estasi musicale a 360°: Be Aggressive, Caffeine, Evidence e Surprise! You’re Dead. Arrivata a questo punto non riesco più a muovermi per l’emozione. Mi guardo attorno e tutti gli altri anziani che come me hanno deciso di godersi il concerto da seduti hanno gli occhi lucidi. Perché sono tanti, forse troppi, i grandi gruppi del passato che sulle orme della gloria che è stata decidono di ammorbare le nostre vite con dei pietosi ritorni in scena. Troppi i gruppi che dovrebbero andare in pensione invece di infangare il loro buon nome. Questo non è il caso dei Faith No More. La maggior parte dei pezzi eseguiti stasera sono quasi miei coetanei e lì sul palco il tempo sembra essersi fermato. Questa è l’emozione più grande stasera. Per non parlare dei suoni. Non sono una grande fan dell’acustica della Brixton Academy, ma stasera i tecnici del suono si sono superati. Tra tutti, è il basso – sporco, distorto in un alternarsi tra plettro e slap – che domina incontrastato assieme alla voce. E a noi non dispiace affatto. “We’re gonna give y’all some spa treatment. Y’all want some spa treatment?” proclama a gran voce Patton prima che le lunghe armonie vocali di Spirit risuonino nell’arena. Questo è senza dubbio il migliore spa treatment che mi sia mai stato concesso.
Arriva il momento che tutti stavamo segretamente aspettando: Easy, a mio parere una delle più riuscite cover di sempre. Una gigantesca strobosfera proietta quelle luci che sanno tanto di festa delle medie de “Il tempo delle mele”. Patton si avvicina quatto quatto ad un’ignara guardia della security con le spalle rivolte al palco. Gli accarezza prima la pelata, poi gli cinge il collo quasi a volerlo soffocare e gli intima di cantare il ritornello. Niente da fare, alle guardie della sicurezza non piacciono le pattoniane pubbliche manifestazioni di affetto. “You guys wanna hear him singing?”. Incitato dal pubblico, Mike ci riprova ma, anche stavolta, niente da fare. Dopo la svolta romantica, vengono eseguite Everything’s Ruined e la monumentale, anzi epica, Epic. Patton prende un fiore rosso da un vaso e se lo mette sull’orecchio. Continuano a fioccare i grandi classici, in quella che si profila essere una scaletta perfetta. Durante The Gentle Art Of Making Enemies, sbircio sotto ed è un autentico pogo anni ‘90 quello che vedo. E’ il momento di King For A Day e di una esplosiva Ashes To Ashes. Mike ed il megafono, dionisiaca simbiosi.
A chiudere il main set la canzone che amo di più: Just A Man, anticipata dal teatrino tra Patton, Bottum ed il pubblico: “Are we still friends? Are we BFF, Brixton? BFF, Fuck yes”. I dissapori con la sicurezza continuano dopo che un fan prova a salire sul palco. Patton ribadisce che non c’è amore nell’aria, perché la security “is not so friendly”, si avvicina pericolosamente al bordo del palco, mentre in sottofondo echeggia un fragoroso rullo di tamburi. La tensione è forte e sappiamo tutti cosa sta per succedere: Mike intona un acuto e si butta sul pubblico ignorando il divieto di stage diving, tra il delirio della folla. Ho ancora la pelle d’oca. A chiudere il concerto, ben due encore. Si comincia con Matador, il pezzo “nuovo” dei Faith No More che va ascoltato più volte per essere metabolizzato ed amato. Seguono As The Worm Turns e, nel secondo encore, Ajde Jano, canzone popolare serba dalle tinte neo-melodiche, Stripsearch e We Care A Lot. Il cerchio si chiude. La folla defluisce verso le uscite. Sulle scale intravedo gente livida e sanguinolenta e ringrazio di aver potuto assistere a questo vigoroso tuffo negli anni ‘90 da una postazione privilegiata. Per questa volta posso tornare a casa tutta intera, anche se con il magone per un concerto perfetto che avrei voluto durasse altre mille ore. Per fortuna che almeno fuori piove…
SETLIST: Woodpecker From Mars (Delilah) – Midlife Crisis (C’est La Vie) – Be Aggressive – Caffeine – Evidence – Surprise! You’re Dead! – Last Cup Of Sorrow – Spirit – Easy – Everything’s Ruined – Epic – The Gentle Art Of Making Enemies – King For A Day – Ashes To Ashes – Just A Man —encore 1— Matador – As The Worm Turns —encore 2— Ajde Jano – Stripsearch – We Care A Lot