“Dopo sei anni di silenzio una band è praticamente sciolta”, dice qualcuno poco prima che i Fleet Foxes diano inizio al loro concerto: come dargli torto, di questi tempi musicalmente frenetici un’assenza così prolungata è un po’ un tacito comunicato stampa. Eppure Robin Pecknold e i suoi si sono ripresentati pochi mesi fa con un disco, “Crack-Up”, che ne ha rilanciato le quotazioni perché giusta evoluzione di ciò con cui i Fleet Foxes s’erano guadagnati i gradi di band culto fra il 2008 (con il self titled) e il 2011 (con “Helplessness Blues”).
L’esame live, però, è quello più indicativo della direzione intrapresa da qualsiasi musicista e, nel caso dei Fleet Foxes, le quotazioni di cui sopra purtroppo calano drasticamente: che qualcosa sia cambiata in seno alla band è evidente, così come che qualche problema alla voce abbia spinto Pecknold verso strade differenti. Quella messa in piedi dai Fleet Foxes a Milano è una performance sottotono, che appiattisce del tutto le gradazioni umorali all’interno dei vari brani, siano essi i nuovi Mearcstapa e Fool’s Errand o piccoli classici come Mykonos e la Helplessness Blues che chiude il set principale.
Sul palco sono in tanti, due, tre chitarre, a volte un mandolino, la batteria, le tastiere, un flauto, ma fuori non esce nulla di tutto ciò: invece che evidenziare la perizia dei Fleet Foxes nelle stratificazioni, i brani (anche quelli che per loro natura hanno su disco un mood più secco e lineare) risultano piuttosto barocchi, in un ammasso sonoro che rende a tratti indistinguibile ogni elemento. Così i momenti migliori finiscono per essere quelli in cui Pecknold sta lì da solo al centro per eseguire Tiger Mountain Peasant Song e Oliver James, che sono il momentaneo ritorno al minimalismo che è (o è stata?) la cifra dei Fleet Foxes.
Il pubblico (decisamente sparuto per una formazione di tale spessore) pare non accorgersi troppo di ciò, intento com’è a cantare strofe che hanno giustamente segnato il songwriting folkeggiante del recente passato, ma dopo un’ora e trequarti la nostra è un’impressione complessiva tutt’altro che positiva. Magari qualche problematica tecnica ha influito negativamente sulla prestazione, visto che si era detto un gran bene della data ferrarese dello scorso Luglio (noi però non c’eravamo). O forse eravamo noi distratti dalla partita Svezia-Italia che si svolgeva in contemporanea. Ecco, facciamo così, facciamo che è stata colpa nostra e che i Fleet Foxes invece sono ancora quella meravigliosa orchestra folk che c’aveva fatto innamorare qualche anno fa.
SETLIST: I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar – Cassius, – – – Naiads, Cassadies – Grown Ocean – Ragged Wood – Your Protector – The Cascades – Mearcstapa – On Another Ocean (January / June) – Fool’s Errand – He Doesn’t Know Why – Battery Kinzie – Tiger Mountain Peasant Song – Mykonos – White Winter Hymnal – Third Of May / Ōdaigahara – The Shrine / An Argument – Crack-Up – Helplessness Blues —ENCORE— Oliver James – Blue Ridge Mountains