Novembre, il 20 per la precisione. Assago, location inattesa per l’unica data italiana dei Florence And The Machine. Grande, enorme anzi. Asettica, spoetizzante. Ed è sold-out. Entri e capisci subito che dev’esserci stato un errore: le tribune sono sature di umanità – troppa, decisamente strabordante – ; il parterre è pieno a metà, ovvero mezzo vuoto. Qualcuno deve avere sbagliato qualcosa. Aprono gli Spector, band giovane, che fa quell’indie tanto di moda. Ho già detto tutto. Non mi animo finché il palco non viene svelato, nel senso letterale del termine. Un’arpa gigantesca, strumento delle Muse, spadroneggia sulla scena come fosse lei la protagonista incontrastata della serata. Altri strumenti compariranno, certo, ma avrò dimenticato persino la loro collocazione prima della fine. Corro già troppo.
Dicevo, il palcoscenico. Sullo sfondo si staglia la facciata di un santuario, un tempio come l’avrebbero costruito negli anni trenta del secolo scorso. Forse non rendo l’idea, ma è esattamente così. E’ li, davanti al suo portone, che i “Cerimonials” vengono celebrati. Quando The Machine sale sul palco e la voce, ancora senza volto, riempie ogni cosa, non puoi credere che appartenga ad un’esile inglesina dai capelli rossi e i lineamenti affilati. Ed invece eccola, Florence Welch dalle bianche braccia, in punta di piedi, scalza. Fasciata in un abito lungo che le lascia la candida schiena scoperta. Un dipinto preraffaelita, uno splendido capolavoro di grazia ed eleganza. Non ti aspetti nemmeno che cominci a saltare e a correre e non si fermi un attimo per tutta la durata del rito, quasi due ore. E che, nonostante la timidezza, divori il palco come se non avesse fatto altro che stare lì sopra, a buon diritto, per tutta la vita. E’ una baccante. Canta la passione, la follia, la disperazione. L’amore e la morte. La rinascita. Ed è l’aria che respira che si fa Musica, che vibra, che travolge tutto. Lungs. I suoi, i nostri. Di noi spettatori, tramutati in adepti al culto, che respiriamo al ritmo della sua voce e tratteniamo il fiato, increduli, ad ogni nota. E’ precocemente smemorata, questo sì. Su Heartlines prende una strofa per un’altra ed è costretta, non senza aver riso della sua dimenticanza, a ripetere l’attacco. Errare è umano, dicono. Dunque, sebbene stenti a crederlo mentre l’ascolto, deve esserlo anche lei.
La Macchina alle sue spalle, al contrario, non sbaglia un colpo. Esegue magistralmente, ma senza fare rumore. Pare quasi non voglia disturbare la cerimonia, rimanere invisibile. Tutt’intorno le luci creano suggestioni dai colori cangianti. Lo sfondo, maestoso nella sua possente immobilità marmorea, si fa schermo: prima selva autunnale, poi giardino fiorito, specchio delle brame ed ancora tempio. La scaletta, persino quella, è studiata con garbo. Brani da entrambi gli album vengono sapientemente mescolati così da dare un’impressione di armoniosa leggerezza: ai singoli più ritmati dal sapore pop-rock (Drumming Song, All This And Heaven Too, Sweet Nothing, quest’ultimo in un’inedita versione strumentale) vengono alternati brani più schiettamente soul e dalle sonorità delicate (Only If For A Night, Lover To Lover, What The Water Gave Me, Cosmic Love, Leave My Body) ed ancora singoli di grande successo (You’ve Got The Love, Rabbit Heart, Spectrum, No Light No Light). Infine, gli encore: i due inni Shake It Out e Dog Days Are Over. Un tripudio. Flo gioca, ride (del riso forte e cristallino che è simulacro del suo bel canto) e si estasia, stupita di essere tanto amata. Non merita di meno.
SETLIST: Only If For A Night – What The Water Gave Me – Drumming Song – Cosmic Love – All This And Heaven Too – Rabbit Heart – You’ve Got The Love – Lover To Lover – Heartlines – Leave My Body – Sweet Nothing – Spectrum —encore— Shake It Out – Dog Days Are Over
A cura di Giorgia Pezzali