Comincia col botto il concerto de Il Teatro degli Orrori al Circolo degli Artisti di Roma. Tra l’altro il primo di due date consecutive, entrambe sold out. Insomma il pubblico è carico e cominciano col piede giusto: E’ colpa mia e A sangue freddo. E’ già il delirio. Peccato però che sembrano farsi prendere la mano dalla situazione, le canzoni sono un po’ sghembe e sgangherate. Alcune quasi non si riconoscono. Snocciola una serie fatta di Mai dire mai, Il Terzo Mondo, Padre Nostro, La vita è breve, tutti pezzi dell’ultimo album “A Sangue Freddo”. Con Majakovskij la tensione sale, le pause lunghissime e teatrali vengono interrotte spesso dall’impazienza del fan che ha imparato il testo a memoria e vuole cantarlo assieme a questo personaggio mitico. Capovilla, come è solito fare nelle sue performance, è rabbioso e violento. Quella violenza dei gesti, che li vedi e ti senti un po’ più libero pure tu. E’ bello stare a guardarlo, vedere dove cade il suo occhio e che espressione fa, vedere per quanto tempo il suo ghigno pauroso si pietrifica per poi sciogliersi di nuovo in scatti nevrotici. Ti spaventa, ma ti fa stare bene. Mister Capovilla viene portato in processione, come i santi. Si lancia un paio di volte sulla folla, che con amore lo sorregge, lo trasporta qua e là nella sala, ma i ragazzi sanno che fra poco gli tocca attaccare di nuovo a cantare allora il flusso lo riporta diligentemente sul palco. Addirittura uno mentre canta gli grida – attento al filo! –. Capovilla è uno di quei personaggi burberi che se smettessero di pagare le bollette di casa ci sarebbe sempre qualche ragazzo a risolvergli la situazione. Ti va di dargli il cuore perché pure se arriva magari ubriaco sul palco ti dà sempre il cuore. Vibra e s’incazza. Ma si commuove pure, come verso la fine, in cui condensa tutta quella parte di emozione acuta e intensa. Prima con La canzone di Tom, in una versione dilatata, in cui si prende tutto il suo tempo ma alla fine ne vale la pena: ti sembra che ti stiano regalando qualcosa d’importante. E poi con la messa in musica di un testo, “La vera prigione”, di Ken Saro Wiwa, poeta attivista nigeriano impiccato nel 1994. La batteria sembra il battito rallentato del tuo cuore, in un attimo si fa un silenzio pesante, carico, attento. E’ difficile rapire a tal punto il pubblico ai concerti, nessuno riesce mai davvero a farli stare zitti. Invece succede, siamo tutti concentrati su quelle parole e rapiti da questo battito misto ad un coretto di meditazione. E la magia fa il suo corso.
A cura di Florinda Martucciello