Ore ventidue e Mark Lanegan e Isobel Campbell fanno il loro ingresso sulla ribalta con la band che li accompagna. Lui è serio come fosse un calco di gesso, lei è meno bella che in foto, me lo si conceda. Partono coi primi quattro solchi dell’ultima fatica, quell’”Hawk” che m’ha davvero entusiasmato, ma partono a mio avviso coi pezzi migliori e qui storco un po’ il naso. Poco male, You Won’t Let Me Down Again si conferma un gran pezzo, compatto, southern fino al midollo. Dal vivo la carica emotiva dei brani rimane la stessa, anzi, emerge con maggiore vigore l’anima blues e bucolica da entroterra americano, quello dei granai e dell’essenza yankee. Nel frattempo, nell’anfratto di platea in cui mi trovo ubicato, tra chi passa a destra, chi passa a manca, chi si sposta di qui e chi di là, finisco accanto a due signorine più che trentenni. Una bionda e una mora. Si danno gomitate complici ad ogni ingresso vocale di Lanegan proprio come se stessero sfogliando un numero di Cioè segnalandosi il belloccio del momento, ma la cosa peggiore sono i balletti che la mora comincia ad improvvisare ad ogni brano, attirandosi gli sguardi severi di chi mi sta accanto. La situazione ha un coefficiente di irrealtà piuttosto alto, tenuti presenti i ritmi blandi della musica proposta dai due musicisti americani. Vorrei informarla che ha sbagliato posto, che non è il concerto dei Motley Crue questo, soprattutto quando mi urta nel bel mezzo di uno dei tanti appunti che prendo al buio (e non sto qui a dire a quali abilità di decifrazione dovrò ricorrere una volta a casa al cospetto di quegli scarabocchi). Si cheterà più avanti, con buona pace dei miei appunti – che però peggiorano in calligrafia. Nel frattempo Isobel e Mark stanno dando una bella spolverata al loro repertorio proponendo Honey Child, What Can I Do? direttamente dal loro esordio, e a seguire Ballad Of Broken Seas, al termine della quale Lanegan proferisce finalmente le sue prime parole, ovvero un “thank you” avvolto nel suo timbro baritonale. E siamo già all’ottavo brano in scaletta. Per tutta la durata dell’esibizione terrà una maschera di ghiaccio, la mano sinistra sul microfono, la destra ad impugnare a metà altezza l’asta, racchiuso nel suo carapace che è invero anche uno spesso muro che lo separa dal pubblico. Finisce “Ballad Of Broken Seas” e all’improvviso l’ex frontman degli Screaming Trees si dilegua nel backstage, lasciando la scena alla sola Campbell, che si immerge in Black Mountain e Saturday’s Gone, anch’esse estratte dal primo full-length. Lanegan torna e tornano anche i fischi e gli inneschi di frequenza che tormentano a più riprese l’esibizione dei nostri. I quali tirano fuori una Back Burner bella fumosa (qui siamo al secondo lavoro, “Sunday At Devil Dirt”), poi Time Of Season che sa tanto di Lynyrd Skynyrd e di nuovo un altro breve passo temporale indietro con Salvation. Scatta l’irresistibile Get Behind Me e qui non posso mica dar torto al balletto della mora, che si scatena al ritmo del dirompente rockabilly ordito dalla cricca sul palco. Sedici brani in settantacinque minuti e il set finisce qui. Fine? No, non è finita, è tempo di extra richiamati a gran voce da un pubblico che ne vuole ancora, sottoscritto compreso. E allora Lanegan e la Campbell tornano sul palco e ripartono con la notturna e affascinante Revolver, rimanendo ancorati all’esordio con la nenia di (Do You Wanna) Come Walk With Me? prima, e la tomwaitsiana Ramblin’ Man poi, con la Campbell che fischietta che è una meraviglia. Ma il colpo di scena, la sorpresa finale, la ciliegina sulla torta, un-altro-luogo-comune-per-esprimere-stupore sta arrivando e, giuro solennemente senza incrociare neanche un misero pelo del mio giovane e candido corpicino, che non me lo sarei immaginato: a) perché è una delle mie canzoni preferite di Mister Lanegan, quindi mi pare una manna miracolosa che suonino proprio quella; b) perché non tengo in conto una rovistata nel Lanegan solista. Insomma, dulcis in fundo, è tempo di una Wedding Dress ancora più acida e graffiante di quella contenuta in quel capolavoro che è “Bubblegum”, con quelle chitarre in crunch che sfrigolano e trasudano elettroni, dipanandoli in ogni dove. The end could be soon, we’d better rent a room, so you can love me, non posso non cantare dopo quel sinuoso Ba dadadada, ba dadada dadadada. Ah, che soddisfazione, mi gaso quasi allo stesso modo di quando ascolto “Walk” dei Pantera. Meglio di così non possono chiudere, con venti canzoni eseguite in maniera impeccabile, un’ora e mezza di alta professionalità ma, forse, anche di eccessivo distacco con un pubblico ad ogni modo caloroso. Sarà una fisima chic? O un vero e proprio approccio “spirituale” alla performance? Non lo so, fatto sta che la mia vescica è leggera come un fiocco di neve e pronta per la traversata di ritorno.
SETLIST: We die and see the beauty reign – You won’t let me down again – Come undone – Snake song – Who built the road – Free to walk – Honey child what can I do? – Ballad of the broken seas – The circus is leaving town – To hell and back again – Saturday’s gone – Back burner – Time of the season – Salvation – Come on over (turn me on) – Get behind me —encore— Revolver – (Do you wanna) Come walk with me? – Ramblin’ man – Wedding dress
(“Come Undone” live @ Tunnel, Milano)
A cura di Marco Giarratana