È una bella e strana sensazione quella di ritrovarsi a un concerto senza sapere affatto cosa aspettarsi. Difficilmente i tour internazionali di una certa rilevanza prendono il via dall’Italia, ma stavolta è successo e per di più con uno degli artisti più significativi degli anni ’10 (e che continua ad esserlo anche in questi ’20), quel James Blake freschissimo della pubblicazione di “Playing Robots Into Heaven”, il suo nuovo lavoro in studio. Quindi zero indiscrezioni sulla setlist che il producer e musicista inglese avrebbe potuto presentare, zero informazioni sull’impianto strumentale con il quale avrebbe affrontato questo tour: una volta tanto un bell’effetto sorpresa.
Il nuovo disco di Blake è qualcosa di sensibilmente diverso da quanto aveva fatto finora, una marea di inserti da dancefloor spinta, a tratti quasi techno, hanno preso per larga parte il posto della post dubstep che lo ha lanciato nell’Olimpo dei più importanti musicisti in circolazione. E siccome la classe non è acqua − e Blake di quella classe ne ha da vendere − l’incastro fra la vecchia e la nuovissima produzione diventa un viaggio nelle sfaccettate derive che Blake ha attraversato nel corso della sua discografia/carriera, con dei meravigliosi climax alternati che creano un avvolgente flusso elettronico. Se in apertura tocca alla cadenzata ritmica di Asking To Break (che quindi apre il concerto così come il nuovo album) e poi ai beat più accelerati di I Want You To Know, subito dopo veniamo ricacciati indietro di oltre dieci anni con Limit To Your Love, quella meravigliosa cover di Feist che nel 2011 era valsa a Blake le attenzioni dell’intero universo musicale.
E va avanti così l’ora e trequarti che Blake regala al pubblico milanese (pubblico cui si era rivolto nel tardo pomeriggio tramite Instagram per annunciare lo slittamento dell’inizio del live, visti il traffico, lo sciopero dei mezzi e la pioggia), tra una Big Hammer che dà il senso della strada intrapresa dal Blake del 2023 e una Love Me In Whatever Way che invece mostra il preponderante aspetto intimista, che resta pur sempre la sua cifra stilistica più riconoscibile. Sembra quasi emozionato il producer inglese, ringrazia più volte i presenti per essere lì ad assistere a questo “esordio” e ripete come questa sia la prima volta in cui i nuovi brani vengono eseguiti dal vivo, quasi a volersi giustificare nel caso in cui qualcosa fosse andata storta. In realtà di storto non va proprio nulla, tutt’altro.
Come consuetudine, con lui sul palco ci sono il batterista Ben Assiter con il suo kit ibrido e Rob McAndrews, che si barcamena fra una chitarra elettrica mai invadente e altri synth oltre quelli sui quali si destreggia lo stesso Blake. Il risultato è un groviglio di suoni in cui si mescolano inscindibilmente clubbing e pianoforte, con cui Blake si fa ora DJ da Boiler Room ora songwriter di spessore, mantenendo sempre una coerenza di fondo legata alla ricerca sonora, mai banale. E con la sua voce che resta in ogni momento, in ciascuno dei diversi contesti in cui si ritrova ad operare, di una delicatezza e una profondità più uniche che rare. Un fenomeno sotto tutti i punti di vista.