Periodicamente il rock viene dato per spacciato, malato terminale che invoca lo stop all’accanimento terapeutico. E, puntualmente, viene fuori un nuovo nome che nelle intenzioni di label e promoter dovrebbe rappresentare il Messia, il Salvatore di quel sacro fuoco sempre sul punto di spegnersi. Va così praticamente da sessant’anni, negli ultimi tempi l’etichetta è stata appioppata a molti ma in modo particolare a due band: Royal Blood e Japandroids, da una sponda all’altra dell’Oceano Atlantico.
Va da sé, quindi, che l’occasione di poter incrociare dal vivo i canadesi sia ghiotta, non fosse altro che per rendersi conto di che pasta sono fatti quando c’è da picchiare sul palco e non solo da pigiare tasti in studio. Alla Santeria Social Club di Milano Brian King e David Prowse c’arrivano subito dopo il doppio set al Primavera Sound e dopo aver messo in cascina il loro terzo lavoro in studio, “Near To The Wild Heart Of Life”, a dire il vero meno convincente dei predecessori perché meno arrembante e più pulitino.
Vedendola da un banale punto di vista di “contrapposizione”, la prima cosa che salta all’occhio è l’età media dei presenti in sala (pochini, in realtà): molto, molto bassa, segno di come sì, le nuove tendenze fra adolescenti e meno adolescenti vanno da tutt’altra parte, ma non è affatto vero che un po’ di sano e retromaniaco rock non possa ancora avere il suo fascino. I Japandroids dal canto loro ce la mettono tutta e partono con l’acceleratore premuto da un piede che non staccheranno mai dal pedale per l’intera durata del live.
La setlist proposta per un’ora e mezza dal duo è trasversale nella loro seppur breve discografia, si comincia con la title track del nuovo album e via velocissimi senza quasi soluzione di continuità. King si affanna alla chitarra con un’indole decisamente più punk di quanto sembri su disco, mentre Prowse picchia duro alle pelli con ritmiche serrate che non danno tregua ai pezzi. Entrambi prestano la loro voce ai brani, ovviamente è King ad avere più spazio ma sembra quasi che Prowse ne prenda il posto proprio in quei momenti in cui King resta inevitabilmente a corto di fiato.
Tracce nuove come North East South West o Arc Of Bar s’innestano alla perfezione nel vecchio repertorio, riacquistando nella dimensione live un po’ di quell’attitudine lo-fi che si chiede ai Japandroids e che gli si rimprovera di non aver avuto nell’ultimo lavoro. In sala si scatenano piccoli capannelli di pogo ed è un sing along continuo, con una partecipazione e un filo diretto tra sotto e sopra il palco che non ha nulla da invidiare ad eventi dalla portata ben più grande.
Sul finale, fra una Young Hearts Spark Fire e una The House That Heaven Built, King ringrazia qualcuno del pubblico arrivato direttamente dalla Spagna per rivedere i Japandroids ancora una volta dopo il Primavera, salvo poi lasciarsi andare a una stanchezza palpabile che tradisce una partecipazione anche e soprattutto fisica alle proprie performance. Non saranno i Japandroids a salvare le sorti del rock, sempre che questo ne abbia davvero bisogno, ma è certo che i sostenitori della sua morte non l’avranno vinta tanto facilmente finché ci saranno band come loro in circolazione.