Le cose sono sempre e solo due, specie quando incidi un capolavoro come “The Epic”. O riesci a replicarne le gesta dal vivo oppure sei una totale delusione. Nel caso di Kamasi Washington, musicista già molto ben noto prima di incidere la sua opera ormai più conosciuta, i dubbi da fugare in merito erano pressoché nulli e malevoli. E infatti incontrarne la produzione on stage non è soltanto una conferma: è probabilmente una direzione (quasi) nuova su un altissimo livello di rodaggio live e una base mostruosamente solida di possesso della materia musicale. Mica poco, annunciato così.
Introdotto dalla graziosa LNDFK (un po’ FKA Twigs, un po’ pianobar), il sassofonista nato a Los Angeles regala, insieme alla sua eccezionale band da scontro finale, oltre un’ora e mezza di puro jazz entertainment – condito da alcuni, piacevolissimi e molto ben strutturati cliché del genere. Meritano, i magnifici sette di cui sopra, di essere citati tutti: Brandon Coleman (Rhodes, Moog, synth), Ryan Porter (trombone), Rickey Washington (sax soprano, flauto traverso; nonché padre del Nostro uomo), Patrice Queen (voce), Miles Mosley (contrabbasso, basso elettrico), Toney Austin e Robert Miller (doppia batteria). Kamasi lascia a ciascuno il proprio momento di gloria, mentre si consumano con immensa energia le splendide Change Of The Guard o Cherokee fino alla conclusiva, devastante The Rhythm Changes.
Vero e proprio leader e grande self-made man, Washington (Junior, è il caso di aggiungere) non concede encore (a ragione, dopo una performance di questo tenore) ma si presta ben volentieri a fotografie e firmacopie, a fine concerto. La sensazione condivisa, a questo giro anche partecipata da un buonissimo numero di presenti, è quella di aver assistito al processo di consacrazione di un artista enorme non soltanto per l’imponente stazza fisica, ma soprattutto per l’evidente e oramai lanciatissima statura compositiva.