“A London Landmark”, recita gloriosa l’insegna dell’Hackney Empire, e su Robert Fripp si potrebbe affiggere un cartello che egualmente recita “A Rock Landmark”, se non fosse per due motivi: il primo è che probabilmente s’incazzerebbe come una belva a essere chiamato “rock” (e anche perché gli stanno affiggendo un cartello addosso, possibilmente); il secondo è che un “landmark” fa pensare a qualcosa di vecchio, di statico, tutto il contrario di quello che sono sempre stati i King Crimson e Robert Fripp medesimo.
La formazione comprende un triplo set di batterie schierate in prima linea: Bill Rieflin, Pat Mastelotto e Gavin Harrison. Il primo, posizionato al centro, si occupa anche delle parti (un tempo di mellotron) di synth, mentre Mastellotto, sulla sinistra, utilizza varie batterie elettroniche e ammennicoli vari. Rimane Gavin Harrison, già batterista dei Porcupine Tree, il quale si occupa di far cadere le mascelle degli astanti in platea sul pavimento. Dietro questa mostruosa sezione percussiva, che detta sin da subito con Larks’ Tongues In Aspic, Part One il durissimo suono dell’intera performance, su una piattaforma soprelevata si trovano Mel Collins, sassofonista della formazione originale e qui ai flauti e al sax, Tony Levin al basso e chapman stick, Jakko Jakszyk, con una chitarra che raffigura la copertina dell’esordio dei Crimson alla ritmica e voce (nonché l’occasionale flauto traverso), e, finalmente, all’estrema destra del palco, lui, Fripp, serissimo, placido, seduto, con le cuffie e la chitarra sulla coscia.
Il suono, che l’Hackney Empire restituisce gloriosamente bene, è furiosamente pesante, come dicevamo, ma mai troppo pesante, ed è uno spettacolo vedere gli arzigogolati incastri del terzetto di fronte costruire una ragnatela ritmica nella quale s’incastrano a meraviglia i quattro dietro. Sarebbe ridondante parlare di assoluta perfezione tecnica parlando di un gruppo assemblato da Fripp, né sorprende che se ne stia in un angolino, immobile, a ricreare vecchie e nuove trame di chitarra (guai a chiamarli “riff”, lo ha ricordato un documentario sulla BBC venerdì scorso, dove Fripp, fiero, diceva di ragionare in termine di “motivi”, non di riff).
La scaletta, oltre alle immancabili Schizoid e Starless, propone Epitaph ed In The Court Of The Crimson King, con la quale si chiude il richiestissimo bis, ma offre altresì numerosi pezzi inediti, tra i quali Suitable Grounds For The Blues e Meltdown, indice forse che non solo Fripp non si è ritirato come disse nel 2012, ma che un nuovo album potrebbe essere all’orizzonte, più duro e sperimentale che mai.
Il pubblico è assolutamente estasiato e offre numerose standing ovation e ruggiti di gioia per ogni pezzo (l’assolo di batteria di Gavin Harrison in 21st Century Schizoid Man ha provocato un applauso che ha fatto tremare il teatro più delle tre batterie). Lunghissima la standing ovation finale, come speriamo possa essere ancora lunghissima la carriera di sua maestà Robert Fripp e di qualunque straordinario musicista abbia deciso di portare con sé questa volta.
SETLIST: Larks’ Tongues In Aspic, Part One – VROOOM – Radical Action (To Unseat The Hold Of Monkey Mind) – Meltdown – Hell Hounds Of Krim – The ConstruKction Of Light – Suitable Grounds For The Blues – Banshee Legs Bell Hassle – Easy Money – Epitaph – Interlude – The Letters – Sailor’s Tale – Devil Dogs Of Tessellation Row – 21st Century Schizoid Man – Starless —encore— The Talking Drum – Larks’ Tongues In Aspic, Part Two – The Court Of The Crimson King