Memori dell’incredibile serata vissuta venerdì scorso in quel di Monza (le sensazioni tra lo straordinario spettacolo dei Radiohead e i clamorosi disagi erano e sono a dir poco contrastanti), nutrivamo molta curiosità per questa giornata del Milano Summer Festival, rassegna che il 21 Giugno ha visto in programma in un solo giorno Kings Of Leon, Editors e Jimmy Eat World: mica male, soprattutto se consideriamo che le due band americane in questione (gli Editors sono invece ormai di casa) mancavano da tempo immemore dall’Italia. Ben vengano dunque questi mini festival, specie se servono a far rientrare nel circuito italiano gruppi che in genere snobbano il nostro Paese.
Chi vi scrive aveva parecchio interesse a non perdersi il gruppo d’apertura e si è dunque avviato verso l’Ippodromo SNAI molto presto, nonostante il sole cocente. Dopo il caos di Monza eravamo ben felici di assistere a un concerto ospitato in una location ben infrastrutturata come l’Ippodromo di San Siro. Accade però anche stavolta un disguido grave, sinceramente ingiustificabile. Andando sul sito ufficiale del festival si leggono indicazioni totalmente sbagliate riguardanti l’entrata della zona concerti, che si trova nei pressi di Piazzale Lotto e non a Piazzale dello Sport: il risultato è che migliaia di persone hanno dovuto fare un demenziale percorso a ritroso, ritardando di una ventina di minuti l’entrata nell’area festival. Male, malissimo se consideriamo che parecchia gente è arrivata già tardi a causa della giornata lavorativa: non sarebbe il caso di aggiornare le indicazioni? Per quanto grave, questa è per fortuna l’unica nota negativa della serata.
Concludendo la panoramica sul lato organizzativo, un brivido corre lungo la schiena quando ci avviciniamo al servizio bar, gestito – come nel caso degli I-Days – dal milanese Fabrique. Sospiro di sollievo: non ci sono i famigerati token né tantomeno la vergognosa consumazione obbligatoria di 15 Euro. A mia precisa domanda sui token il sorriso della cassiera è eloquente, visto che – parole sue – non eravamo certo i primi a porgerle la questione. Evidentemente il problema era sentito, probabilmente le critiche furenti di questa settimana sono servite a qualcosa. Molto bene anche il servizio ristorazione, affidato a brand famosi che non vogliono certo farsi cattiva pubblicità con prodotti scadenti: per farla breve, si mangia tanto e bene senza neanche spendere molto, dunque l’esperienza festivaliera extra musicale è stavolta promossa a pieni voti.
Alle 18.30 inizia il primo concerto in programma e il colpo d’occhio di pubblico fortunatamente è già discreto. I primi esibirsi, i Jimmy Eat World con il loro pop punk di chiara matrice sud statunitense, non poteva che venire dall’Arizona e rappresentano lo sparring partner ideale per gli headliner di serata, quei Kings Of Leon che incarnano al meglio lo spirito del southern rock traslato in chiave moderna. L’anima dei Jimmy Eat World è rappresentata – manco a dirlo – dal frontman Jim Adkins, che in barba ai ventiquattro anni di carriera canta così bene che si fa fatica a distinguere la sua voce live da quella in studio. Gli ormai ex ragazzi di Mesa non sono certo dei grandi innovatori, anche perché – pur pubblicando album sempre dignitosi – non sono mai riusciti a bissare il successo dell’ottimo “Bleed American”, datato ormai 2002. Il live però ha una resa straordinaria, anche perché le hit di del già citato album vengono tatticamente poste a inizio e fine concerto (l’esplosiva Sweetness, A Praise Chorus e la celeberrima The Middle), ma non mancano pregevoli episodi dell’ultimo disco (le eccellenti Get Right e Sure And Certain) o del resto della loro discografia, come Big Casino. In 45 minuti i Jimmy Eat World si guadagnano gli applausi meritati del pubblico, che continua a crescere canzone dopo canzone: le vere attrazioni della serata devono d’altronde ancora venire.
Diciamolo subito: la scommessa degli organizzatori pare vinta, poiché la combo Kings Of Leon/Editors, nonostante il prezzo di oltre 60 Euro, oltre agli avventori abituali è riuscita a intercettare una buona parte di pubblico di quel rock per le masse che in genere si smuove solo per Coldplay, Muse, U2 e innominabili artisti nostrani. Gli Editors – anche se un po’ inflazionati dai loro ormai perenni concerti in terra italica – suonano davvero bene, soprattutto se pensiamo alla parte più recente della loro carriera. Già, perché ci sono vecchie hit onestamente non imperdibili (Munich, An End Has A Start) che con il loro indie rock rapido, danzereccio e semplice ricordano violentemente i tempi di MySpace, dell’università e del gol di Grosso alla Germania. Ci sono poi gli Editors più maturi, che partono dalla conclusiva hit in salsa synthwave Papillon e arrivano all’ultimo, eccellente album “In Dream”: canzoni come Ocean Of Night e Marching Orders dal vivo suonano ancor meglio che su disco e ci consegnano una band sempre più brillante, che ancora non conosce i propri limiti.
Dopo due grandi concerti come quelli che vi abbiamo appena raccontato si potrebbe anche tornare a casa (e qualcuno incredibilmente lo fa davvero: mah!) e invece no, invece la meraviglia della serata si deve ancora manifestare. La meraviglia viene dal Tennessee, più precisamente dal clan della famiglia Followill: zitti zitti (e con un percorso artistico inversamente proporzionale a quello degli Editors, ma di questo parleremo dopo) i Kings Of Leon possono ormai permettersi di imbastire una setlist infarcita di parecchie hit, suonare un’ora e venticinque minuti senza bis e inutili pause da finte primedonne, per concludere il concerto tra gli applausi con un brano dell’ultimo album, la riuscitissima cavalcata rock Waste Of Time. Sono tutti segnali di maturità per una band che per quel che ci riguarda meriterebbe i numeri da stadio di gruppi come Coldplay e Muse, che ormai sembrano giunti al capolinea creativo. I Kings Of Leon sono protagonisti di un live che cresce pezzo dopo pezzo, che mescola bene la band degli esordi che fu (The Bucket e Molly’s Chambers ne sono fulgido esempio) a quella post 2008, quando – complice la ultra radiofonica Sex On Fire – la formazione statunitense venne accusata senza troppi giri di parole di essersi venduta (tra le altre, ricordiamo le parole del sempre diplomatico Liam Gallagher: “L’hanno fatto per i soldi”). A noi però i Kings Of Leon dell’ultima decade non dispiacciono: saranno anche più mainstream, ma a chi frega se riescono comunque a tirare fuori brani straordinari come le commoventi Use Somebody, Eyes On You e Pyro o le energiche Crawl, Radioactive e Supersoaker? A nessuno, almeno tra i presenti entusiasti. Il loro spirito southern rock è dopotutto sempre lì presente sul palco: lo senti, lo percepisci, lo vivi. Va benissimo così: si va a casa più che soddisfatti, sognando mille di queste serate.