Sul perché in Italia non sia possibile un festival con grandi nomi alla pari di tutte (esatto: tutte) le altre nazioni europee, vige un discreto mistero: passano gli anni, i decenni, ma nulla cambia. Va detto però che quest’anno gli I-Days milanesi hanno provato, almeno in parte, a colmare il gap, tornando (seppur in ordine e con location sparse) a rinverdire la tradizione dello storico Heineken Jammin’ Festival. Insomma, non più rassegna, ma festival vero e proprio, anche se al minimo sindacale di nomi per giornata: capita così che ad accompagnare Liam Gallagher sabato 1 Luglio siano stati non semplici artisti di supporto, ma band di prim’ordine come The Black Keys e Nothing But Thieves, a formare una line-up giornaliera magari striminzita, ma variegata e di assoluto valore.
I Nothing But Thieves sono previsti alle 17.30, ma a quell’ora inizia invece il dj set di Virgin Radio. La band britannica comincia infatti con mezz’ora di ritardo: scelta saggia, per consentire a più gente possibile di entrare in tempo, noi compresi. Conor Mason e soci non sono esattamente gli artisti per i quali siamo venuti oggi, ma mettono su uno show davvero imponente, dove spiccano alcuni nuovi brani (Welcome To The DCC, la sorprendente Overcome) oltre ai classici della band (Amsterdam, Sorry). Bravissimi, niente da dire. Torneranno a Milano a Febbraio.
È poi la volta dei The Black Keys, che vincono a mani basse il titolo di migliori vice headliner possibili in qualsiasi festival del pianeta. Il perché è presto detto: magari non attireranno folle oceaniche come il classico nome di punta, ma con il loro sublime rock’n’roll, con le loro 4-5 hit epocali, a chi mai potrebbero non piacere? L’esibizione è ovviamente trionfale, e la sensazione è che con quelle canzoni lì (Fever, Wild Child, Howlin’ For You, per non parlare di Lonely Boy) strapperebbero applausi anche ad un festival metal.
L’area dell’ippodromo La Maura è sconfinata (menzione d’onore per i prezzi superpopolari del supermercato all’interno dell’area concerti), e va riempiendosi sempre di più: sulle note di un coro da stadio del Manchester City e Fuckin’ In The Bushes entra in scena Liam Gallagher, con la sua bella e trionfale carriera solista, lontana anni luce dagli stenti dei Beady Eye. Le due sopraccitate canzoni introduttive dicono molto del Liam odierno: attorno a lui è stato creato uno show imponente, che punta moltissimo su ciò che è stato ed è, ovvero una degli ultimi veri, iconici frontman, razza in inesorabile via d’estinzione nel mondo del rock. La scommessa è vinta, perché Liam Gallagher sa incarnare al meglio (rispetto all’onestissima e meno “artificiale” carriera del fratello Noel) l’atmosfera genuina che si respirava ai concerti degli Oasis, estremizzandola sotto alcuni aspetti.
I braccialetti luminosi dei Coldplay qui non ci sono e lasciano spazio a tantissimi fumogeni, che si accendono ogni qual volta parta un brano Oasis: non mancano i grandi classici (le iniziali Morning Glory e Rock’n’roll Star, il trittico finale Cigarettes And Alcohol, Wonderwall, Champagne Supernova), ma il l’intermezzo oasisiano che convince maggiormente è quello mediano, con la splendida chicca rappresentata da Roll It Over, una straordinaria Stand By Me e la magistrale esecuzione di Slide Away. Ovviamente c’è spazio anche per i suoi brani da solista (incomprensibile l’assenza di “Everything Electric”) dove spiccano per bellezza le recenti More Power e Diamond In The Dark, perfette per un live del genere. È un trionfo, e possiamo dire tranquillamente che la giornata sia riuscita perfettamente nella globalità della proposta musicale, tanto variegata quanto apprezzata da tutti i presenti. Bene così.