Arrivando davanti all’ingresso del Teatro Martinitt è impossibile che la mente non viaggi, che non trovi nei cassetti della memoria una qualche somiglianza della facciata del teatro con certe chiese statunitensi, di quelle moderne che si vedono nelle serie tv ambientate nei piccoli centri urbani. Se non fosse per il nome del teatro in bella vista, in alto, transitando velocemente in auto passerebbe senza dubbio per una chiesa. Quale posto più idoneo, quindi, per ospitare un concerto dei Low? Una band che ha sempre avuto un forte legame con la religione (i coniugi Sparhawk sono Mormoni e hanno spesso trattato certi temi nei loro brani) e che, per sound e indole, si è sempre prestata molto a dimensioni intime ed evocative (c’hanno anche suonato in una chiesa, in passato).
Non che ci voglia poi tanto – circa 400 i posti a sedere – ma il concerto è ovviamente sold out. E l’attesa è tanta, perché le due tappe italiane che hanno preceduto questa milanese, a Roma e Firenze, hanno già fatto parlare molto sul web, con pareri concordanti: i Low hanno raggiunto probabilmente il top della loro carriera con l’ultimo “The Invisible Way”, per qualità, per espressività live, per sinergia.
Il che non è difficile da credere, perché quando alle 21.30 partono le prime note della nuova Plastic Cup è come se un immaginario interruttore catapultasse d’un tratto i presenti in una dimensione a sé stante. C’è On My Own e Alan si contorce sulla sua chitarra con fare decisamente carnale. C’è Clarence White e l’incrocio di voci fra lui e la moglie Mimi si fa via via più compenetrato, col pubblico ad accompagnare il finale col proprio battimani. C’è Holy Ghost ed esplode per la prima volta la liturgia canora della Parker. Se mai ce ne fosse stato bisogno, così, il nuovo album conferma già con questi quattro brani (nonché con le successive Waiting e Just Make It Stop) il livello raggiunto.
Non manca lo spazio lasciato alle vecchie composizioni: Monkey, Dragonfly (a sorpresa fra le più applaudite), Words coi suoi vent’anni sul groppone (dall’esordio del ’94 “I Could Live In Hope”), quella gemma che è Sunflower, In The Drugs, Pissing e Murderer. Ma anche le più recenti Especially Me e Nothing But Heart, dal penultimo “C’mon”, per un excursus completo nelle due decadi d’attività di questi alfieri dello slowcore.
Il finale di set prima dell’encore è affidato ad una irriconoscibile Stay, cover di Rihanna che i Low hanno inserito stabilmente nel proprio repertorio dopo il successo riscosso sul palco del Pitchfork Festival. E quando anche un pezzo appartenente a tutt’altra galassia come questo riesce a regalare brividi, vuol dire che siamo al cospetto di vere e proprie mani d’oro.
Al rientro dopo una brevissima pausa, Alan spende le prime parole nei confronti del pubblico (eccezion fatta per qualche “thanks” sparso qua e là): «Vi ringraziamo molto per il vostro supporto, è davvero bellissimo vedervi così rilassati e così da vicino», dirà riferendosi al contatto ravvicinato fra platea e palco che consente il Teatro Martinitt.
Gli ultimi tre brani proposti sono Violent Past, una a dir poco meravigliosa Last Snowstorm Of The Year e per chiudere il personalissimo buonanotte dei Low con I Hear… Goodnight. Cala metaforicamente il sipario, si accendono le luci, si chiudono alle spalle del pubblico le porte della sala e poco dopo anche quelle del teatro. E se quest’ultimo prima dell’inizio sembrava quasi una chiesa, immaginatevi l’impressione che dà dopo quest’ora e mezza di Low.
SETLIST: Plastic Cup – On My Own – Clarence White – Holy Ghost – Monkey – Waiting – Especially Me – Dragonfly – Words – Just Make It Stop – Nothing But Heart – Sunflower – In The Drugs – Pissing – Murderer – Stay (cover Rihanna) —encore— Violent Past – Last Snowstorm Of The Year – I Hear… Goodnight