Catania è una città brutta. Qualche mese fa, mostrandola grigia, sporca e volgare qual era in una triste e piovosa giornata settembrina ad un amico americano, provai moltissima, tormentata vergogna. E’ un sentimento che non si placa, specie di questi tempi. Specie per chi vede, ha visto e vedrà i suoi compagni d’eventi partire con biglietti di sola andata, sé stesso incluso. Specie se istituzioni culturali come il Teatro Massimo Bellini o il Teatro Stabile sono costrette a chiudere o proporre stagioni amputate e raffazzonate, a causa dell’inestinguibile malaffare, sotto vangate di letame amministrativo, nomine politiche, consulenze milionarie, gestioni imbarazzanti del denaro pubblico. Specie se le piccole realtà – con le unghie, i denti ed i salti mortali – riescono a strappare soltanto le briciole di vomitevoli tabelle regionali, mentre orchestrine dismesse e associazioni tutt’altro che meritevoli riempiono puntualmente le proprie sacche. Specie se chi opera con criterio, riqualificando con impegno quartieri nevralgici all’interno dei quali prolifera, ricco e fagocitato, il disagio sociale, viene punito con assurde e ingiustificate sanzioni. Specie se un teatro occupato che qualsiasi amministrazione dotata di buon senso lascerebbe dov’è, a ossigenare un capoluogo asfittico e dichiarare criminose certe barbarie legislative dell’italico suolo, si trova preso immediatamente di mira come non ci fosse altro a cui pensare, e ben prima. Tutto questo (e molto altro ancora) rende Catania, per chi la abita e chi la ama, una città inappellabilmente brutta, spesso invivibile, distante anni luce non già da Edimburgo o Cracovia, ma da province che nella penisola danno un esempio certamente migliore. Si torna o si resta in Sicilia per la più comune tra le abitudini amorose: il rifiuto, che tanto meno rende raggiungibile la meta, tanto più le fornisce energie sempre vivaci e rinnovate.
Nel disegno di questo scenario luttuoso, nonostante la grande celebrazione laica di Sant’Agata si avvicini febbricitante, episodi insperati come il concerto di Lubomyr Melnyk sono come un pasto caldo per l’affamato, d’inverno. Giunto incredibilmente alla veneranda età di 65 anni senza mai aver suonato dal vivo in Italia, il compositore ucraino deve accontentarsi d’un pubblico che definire aritmeticamente esiguo sarebbe insufficiente anche per una dimenticata sala biliardo dell’entroterra. Welcome, Maestro. Ciò nonostante, e come spesso accade in simili circostanze, la qualità della performance basterebbe da sola a spiegare con invidiabile chiarezza, ad un’intera classe elementare, cosa significa “inversamente proporzionale” – al dato sopracitato, in tal caso.
Un’implacabile cascata di note sommerge i presenti, o meglio li ammanta sublimemente: per poco meno di un’ora e trenta minuti il pianoforte, precedentemente amplificato ma subitamente denudato («There’s few people, we don’t need this: we can hear the piano», dirà il Maestro prima di sedersi) sottrae l’hic et nunc riducendo il Centro Culture Contemporanee Zo ad una zona franca, sospesa da qualche parte, non si sa bene dove, nello spazio e nel tempo. E’ la magia della “continous music”, una tecnica (di più: un linguaggio vero e proprio) teorizzata dallo stesso Melnyk, e condotta alle estreme conseguenze grazie alla conclusiva, portentosa Windmills. Dopo l’intensa narrazione sonora delle imprese militari di Ivan Mazeppa (l’omonima Mazeppa), condottiero che ispirò – tra gli altri – Franz Liszt e Pyotr Ilyich Tchaikovsky, quasi mezz’ora d’indimenticabile spleen scolpisce la storia d’un vecchio mulino, le cui pale ritornano a girare dopo tempo immemore, favoreggiate dal vento, per poi finire completamente distrutte dalla tempesta seguente. E la meraviglia, in siffatto modo, giunge purtroppo all’inconfutabile punto.
Catania è una città brutta, dicevamo, ma rassegne come “Partiture” le danno per brevi, brevissimi tratti un’aria da Signora. Al termine del concerto, dopo una felice compravendita, tento di esporre ad uno stupito e visibilmente deluso Melnyk le motivazioni d’una annunciata débâcle, in materia di spettatori. Ad esplicita domanda, esplicita risposta. Convinto da quelle poche, ma spero accurate parole, prima di congedarmi riesco apparentemente a rincuorarlo, con uno stereotipato ma autentico: «there were few, but all in love». Poca cosa, e forse non del tutto vera, ma necessaria prima di tutto a me stesso per dimenticare una condizione d’interesse già circoscritto che ormai, da iniziale aporia, è divenuta il più giusto ed esatto dei sillogismi. In mancanza di appello.
Nota: Sebbene poco c’entri, e non sia questo il caso, non è raro che a Catania si accavallino diversi eventi degni di nota, nella stessa sera, a fronte d’un restante ed ingombrante immobilismo. Sarebbe forse raccomandabile, nonché adeguato e fruttuoso, che le poche entità cittadine, coraggiosamente ostinate a suggerire una degna programmazione, si confrontino e reciprocamente sostengano al fine di evitare simili imbarazzi. Non foss’altro che spaccare una esile schiera di fruitori risulti, ai miei occhi, follia bell’e buona. Non foss’altro che un diniego, a fronte dell’attuale scenario, somiglierebbe a spaccare – sì – ma il capello, e in quattro.
SETLIST: Parte 1: Meditations – Butterfly – Mazeppa – Parte 2: Windmills