La parola amarcord non dev’essere necessariamente velata di tristezza, a volte può anche nascondere un sorriso per ciò che è stato e che inevitabilmente non può più essere, senza rimpianti. Questa premessa per dire che il Marilyn Manson del 2015 è un artista totalmente diverso da quello di 10, 15 o 20 anni fa. Per certi aspetti migliore, dato che l’ultimo The Pale Emperor è la sua incarnazione più convincente da almeno due lustri a questa parte. Per altri peggiore, quelli legati all’inesorabile trascorrere del tempo: la voce non è più quel rantolo demoniaco che turbava il sonno dei conservatori americani, mentre la presenza scenica va avanti a forza di cliché già noti e ripetuti pedissequamente nel momento esatto in cui tutti se li aspettano.
Assistere a un suo live, così, finisce per essere puro amarcord ma anche un immancabile appuntamento nell’agenda di quanti hanno seguito l’evoluzione di Brian Warner da “Portrait Of An American Family” ad oggi. Non a caso, l’Alcatraz è sold out già da settimane, segno che lo zoccolo duro del Reverendo è ancora piuttosto massiccio. Dal nuovo disco vengono eseguite le sole Deep Six (proprio in apertura) e Third Days Of A Seven Day Binge, insignificante tributo ad un album che probabilmente avrebbe meritato qualcosa di più in un tour che in teoria avrebbe dovuto supportarlo. Per il resto è un greatest hits lungo 80 minuti, di cui almeno una decina trascorsi in pause in cui Manson prova a riprendere fiato.
Se l’esecuzione di Tourniquet fa acqua da tutte le parti, cannata in pieno da Warner, e in diversi casi la voce del pubblico supplisce a quella principale che arranca, non mancano quelle quattro/cinque mine anticarro che sono la vera carta d’identità di Marilyn Manson: Disposable Teens, mOBSCENE, Rock Is Dead e Lunchbox sono distruttive per quei due minuti cadauna in cui Manson regge il passo di musicisti – fra cui il redivivo Twiggy Ramirez – che sembrano in forma. Quando invece i ritmi sono più allentati, vedi il caso di Sweet Dreams e The Dope Show, allora sì che il tempo sembra essersi fermato.
Discorso a parte per Angel With The Scabbed Wings: la band accenna qualche nota di “Rape Me” dei Nirvana, Manson farfuglia qualcosa riguardo gli anni ’90 e le canzoni epiche e via con questo brano che quella decade l’ha fatta a fettine. Miglior momento della serata al pari di due pietre miliari come Antichrist Superstar e The Beautiful People che chiudono il set: il podio su cui s’inerpica Manson per la prima è più basso che in passato, non c’è una Bibbia da strappare ma il risultato resta sempre e comunque un pugno nello stomaco, mentre la marcia della seconda si conferma ancora l’anthem per antonomasia del Reverendo e i suoi adepti.
Al rientro dopo l’interruzione (in realtà quasi indistinguibile dagli altri momenti di stasi del concerto) c’è spazio per la sola Coma White, altro classico che ad avercene oggi: Manson indossa il suo mantello con cappuccio, snocciola quel testo che trasuda disperazione e alienazione come pochi altri e scompare nel backstage. Abbandonando la sala in tanti fanno considerazioni simili a quelle qui esposte, ma il sorriso, quello non mancava a nessuno nonostante tutto.
SETLIST: Intro – Deep Six – Disposable Teens – mOBSCENE – No Reflection – Third Day Of A Seven Day Binge – Sweet Dreams (Are Made Of This) (Eurythmics cover) – Angel With The Scabbed Wings – Tourniquet – Rock Is Dead – The Dope Show – Lunchbox – Antichrist Superstar – The Beautiful People —encore— Coma White