Mark Lanegan riapproda in Italia dopo la capatina insieme a Isobel Campbell nel novembre del 2010. “Blues Funeral” ha fin qui destato pareri contrastanti e c’era da aspettarselo. Il cambio di rotta è stato netto, ma a mio avviso Lanegan ha tenuto testa ai detrattori grazie alla sua versatilità: con quella voce lì renderebbe un evento acustico persino il canticchiamento dei nomi dell’elenco telefonico. Sono quindi curioso di sentire come le nuove composizioni si possano integrare nel repertorio storico, di cui io e i presenti a un Alcatraz di Milano quasi pieno siamo parecchio legati, forse più per motivi di cuore. Il pubblico ha un’età media tra i 30 e i 40 anni, il ritrovo degli orfani del grunge al cospetto dell’unico superstite che ancora gode di un’esemplare rispettabilità.
Sono i Creature Of The Atom Brain a scaldare la platea. Già due album alle spalle e un nuovo lavoro schedulato per aprile, “The Birds Fly Low”, questo il curriculum del gruppo. Gruppo in cui suonano il cantante/chitarrista Aldo Struyf e il batterista Michael Lawrence membri anche della band che accompagnerà Lanegan subito dopo. Blando conflitto di interessi a parte, per lo meno questi signori la raccomandazione se la meritano. Hanno un buon tiro e tengono bene il palco, nonostante siano un po’ statici. Il bassista però è un tipo pittoresco, ha una barba pantagruelica dai peli tesi come se si fosse beccato 220 volt giusto poco fa. Invero, le melodie vocali di Struyf non sono granché, ma il groove c’è e il riffing trasuda energia appellandosi agli stilemi classici del genere, ovvero un hard-rock energico che sprofonda spesso in mid-tempo e sincopi stoner. In alcuni frangenti mi ricordano i Cathedral, soprattutto nei ricami di chitarra più barocchi. Suonano per una buona mezz’ora eseguendo 6 pezzi e solo nell’ultimo pagano l’evidente dazio ai Queens Of The Stone Age, fin lì una flebile ombra in lontananza: non conosco il titolo del brano in questione, ma sono rimasto affascinato dalla cadenza ossessionante e rapito dal limbo visionario ordito dai quattro musicisti. Mi sono promesso di approfondirli perché lo meritano.
Dopo un’altra mezz’ora, stavolta trascorsa ad attendere, arriva Lanegan. Camicia nera, pantaloni neri, oltre che dall’abbigliamento emana nero da ogni centimetro del corpo. Un autentico sociopatico troppo invischiato coi propri flussi di coscienza per interessarsi al resto dell’umanità. Ma non s’atteggia da sbruffone, non è odioso o provocatore. Ha il distacco che può avere uno spettro da chi ha ancora un’anima imprigionata nella carne. E mi pare calzante la sua attitudine: troverei ridicolo il tentativo di fare il compagnone, forzando un modo d’essere che non gli appartiene e, soprattutto, creando una dissonanza umorale netta coi suoi testi amari, le sue melodie desolanti, la sua voce erosa dal fumo e dall’alcol e da chissà cos’altro.
Rimane fisso per tutto il tempo con la mano sinistra sul microfono, la destra a metà dell’asta, gamba sinistra più avanti della destra. Nei break tra una canzone e un’altra muove le spalle in un tic che oserei ricondurre a un accenno di senilità. Spero di no.
Ad accompagnarlo, un quartetto. Di Lawrence e Struyf, qui alle tastiere e ai programmi, ho già detto, c’è (ovviamente) un bassista e c’è un altro individuo. Il chitarrista alla destra del palco è la reincarnazione di Johnny Cash: in elegante abito scuro con giacca e cravatta, ha i capelli tirati indietro con copiose dosi di brillantina e la faccia di Johnny Cash cucita addosso. Non una maschera ma la sua vera faccia, la somiglianza è impressionante e ai limiti dell’inquietante, giuro.
Passano pochissimi secondi dall’ingresso dei cinque sulla ribalta e via, si parte con When Your Number Isn’t Up, seguita a ruota da una Gravedigger’s Song strepitosa e ancora più oscura e malvagia che su disco. La prima parte dello show è una piccola retrospettiva del recente passato di Lanegan, con Sleep With Me e Wish You Well (da “Here Comes The Weird Chill”) e i due estratti da “Field Songs”, la toccante Resurrection Song e i brividi di One Way Street, col pubblico che accompagna l’ugola di Mark nel mesto refrain.
Possente Hit The City, senza però i sensuali cori di PJ Harvey, sempre affascinante Wedding Dress (siamo in zona “Bubblegum”), c’è persino spazio per Crawlspace, tirata fuori dall’album di inediti degli Screaming Trees uscito alla fine del 2011 dopo 10 anni di conservazione, “Last Words”.
Per l’intera ora e mezza lì sul palco, Lanegan dirà solo un thanks (è il primo e arriva dopo sette brani), un thanks a lot (brano 11) e un thank you so much (fine). La presentazione della band è un gorgoglio baritonale di cui non si riesce a intercettare neanche una vocale, figuriamoci i nomi dei quattro musicisti (che potrebbero chiamarsi Blerburl, Zgurlur, o anche Gioacchino o Amedeo o Peppe: insomma, identità non pervenute, almeno per gli altri due che non conosco).
Quasi tutta la seconda parte del set è appannaggio del nuovo materiale, come da copione. Leviathan conferma la sua caratura anche in sede live, davvero bellissima con la coda intrecciata di cori. Quiver Syndrome, sorellina sfigata di “Bohemian Like You” dei Dandy Warhols, ha invece quel tiro che su disco le manca, così come Riot In My House, qui mega-energica. Solo la controversa Ode To Sad Disco tende ad annoiarmi, ma due ore dopo il concerto mi ritrovo a canticchiarla: forse è più efficace di quanto supponga. In mezzo sbucano One Hundred Days (di nuovo da “Bubblegum”) e la cover dei Leaving Trains Creeping Coastline Of Lights, apparsa nel monumentale “I’ll Take Care Of You” del 1999. Prima della consueta farsa esco-dal-palco-rientro-per-gli-extra, è il turno dell’eccelsa St. Louis Elegy e di Tiny Grain Of Truth, conclusivo tassello di “Blues Funeral”.
La band è ottima. Nessuno sbaglia nulla, dinamiche perfette, il Johnny Cash Reincarnato ha un tocco meraviglioso sulle sei corde, nonché un gusto estetico raffinato nella scelta dei suoni.
Ad aprire il tris di extra un salto di addirittura 18 anni, Lanegan ripesca Pendulum da “Whiskey For The Holy Ghost”. Poi si torna al presente coi rintocchi floreali di Harborview Hospital prima che l’intera platea venga spazzata via da una Metamphetamine Blues mai così cattiva e devastante, un pugno sul naso in parte inaspettato ma fortemente voluto da tutti.
SETLIST: When Your Number Isn’t Up – The Gravedigger’s Song – Sleep With Me – Hit The City – Wedding Dress – One Way Street – Resurrection Song – Wish You Well – Gray Goes Black – Crawlspace – Leviathan – Quiver Syndrome – One Hundred Days – Creeping Coastline Of Light – Riot In My House – Ode To Sad Disco – St. Louis Elegy – Tiny Grain Of Truth —encore— Pendulum – Harborview Hospital – Metamphetamine Blues
* Foto d’archivio
A cura di Marco Giarratana