È un tipo strano Mark Lanegan, da sempre. Schivo, burbero, quasi perennemente incazzato oseremmo dire. Se non fosse che poi, dopo ogni concerto in cui a stento pronuncia un paio di “thank you” con quella voce che ti fa vibrare lo sterno, lo ritrovi lì al banchetto del merchandise pronto a firmare autografi e fare qualche foto. Sempre schivo e burbero, eh, ma disponibile, incredibilmente disponibile visti i presupposti. Ed è un po’ così anche coi suoi dischi Lanegan, strano: ha attraversato l’epopea grunge, ha fatto il songwriter vecchio stampo sulle orme del maestro Tom Waits, ha rifatto il rocker con band a supporto, ha giocato con l’elettronica ed è arrivato con l’ultimo “Gargoyle” persino alla dark wave. Il tutto sempre con la stessa posa, mano sinistra sul microfono e mano destra sull’asta, lo stesso abbigliamento scuro e soprattutto la stessa incredibile vocalità.
Al Fabrique di Milano il pubblico non è quello delle grandi occasioni, Lanegan passa periodicamente da queste parti e ci sta che i suoi live non vengano più considerati eventi assoluti ma solo tappe di un lunghissimo percorso di cui, fortunatamente, non si vede la fine. Ma c’è un nuovo disco da presentare e qualche classico da sciorinare, motivi validi che ci riportano nuovamente al suo cospetto. “Gargoyle” è un lavoro dark wave, si diceva, ma già dall’iniziale Death’s Head Tattoo, che apre tanto l’album quanto la serata, risulta chiaro come nella dimensione live le nuove tracce si livellino musicalmente alla carriera rockeggiante del loro autore, decisamente meno sintetiche.
Di classici veri e propri ce n’è giusto qualcuno, ma sufficienti a fare impennare il live: la meraviglia di One Way Street da “Field Songs” (2001), una manciata di pezzi da “Bubblegum” (2004) ovvero Hit The City, One Hundred Days e Methamphetamine Blues, e due cimeli che tornano indietro fino a “The Winding Sheet” (1990), Mockinbirds e la Wild Flowers che chiude la performance. Nel mezzo c’è qualcosa da “Phantom Radio” (2014) e non è un gran bene, c’è qualcos’altro da “Blues Funeral” (2012) e già va meglio, oltre ad altre nuove proposte che non sfigurano perché Lanegan sa come incastrarle a dovere nel suo repertorio.
In un’ora e mezza l’ex Screaming Trees concede appena qualche ringraziamento, le sue labbra toccano solo acqua ma la voce è ormai segnata da anni di whiskey e anno dopo anno, concerto dopo concerto (e noi l’abbiamo incrociato più e più volte), si fa sempre più cavernosa e vissuta, tanto che anche se ci cantasse una ninna nanna o la sigla di un cartoon riuscirebbe comunque ad ammaliarci. Poco male se non ogni pezzo della sua recente produzione è imprescindibile, poco male se la band con cui è in giro per questo tour non è fenomenale. Molto, molto male invece per chi ha scelto di non dargli ancora fiducia in questo suo ennesimo passaggio in Italia.