L’ultima volta era il 2009, Febbraio. Non era ancora uscito “Cattive Abitudini” e i Massimo Volume si presentavano in trio a Catania per dire: eccoci, siamo tornati. La città aveva già ricominciato a svuotarsi, drammaticamente, come da copione meridionale. Eppure la sala era piena, festosa, concentrata. Che molto cambi in dieci anni è un’affermazione sciocca, persino in posti in cui la stasi spesso è l’unico (falso) movimento. Però, fortunatamente, Emidio Clementi, Egle Sommacal e Vittoria Burattini – per mutuare un verbo caro alla storia del rock nostrano – resistono. Resiste anche il Centro Zo, inossidabile baluardo al centro cittadino, che appunto dopo una decade chiude un cerchio pronto a ridisegnarsi dall’inizio. “E così veniamo avanti, simili in tutto e per tutto a quelli di ieri”, come recita la splendida Le nostre ore contate.
La band sale on stagealle 23:00 (la new entry è Sara Ardizzoni) e sceglie Ronald, Tomas e io per cominciare ad agitare le acque, segnando la direzione di una scaletta prevalentemente composta dall’alfa (“Stanze”, fresco di ristampa, 1993) e l’omega (“Il nuotatore”, 2019). Una voce a Orlando, La ditta dell’acqua minerale, Mia madre e la morte del gen. José Sanjurjo sposano Stanze, Alessandro e In nome di Dio senza colpo ferire, con una soluzione di continuità data semplicemente da un’impronta inconfondibile, da uno stile plumbeo che non ha mai fatto zavorra di sé stesso, evolvendosi con gli anni e con le staffette del tempo. Le portentose Vedute dallo spazio/Ororochiudono in gran crescendo la prima parte del concerto, ribadendo mai una volta in più del dovuto che “l’adesione è fuoco”, marchiato a pelle sul petto e sui polsi.
Una classica uscita di scena ed è subito encore, condito nel finalissimo da una doppietta eccezionale: Dopo che (definito dal gruppo, ironicamente, uno dei tre brani peggiori della canzone italiana dall’800 ai giorni nostri) più l’inestinguibile Fuoco Fatuo. Nell’iconografia della domanda “Leo, è questo che siamo?” affonda anche questa notte, anche questo ascolto, anche questo timido inverno siciliano. Siamo questi, sì: siamo invecchiati dieci inverni e siamo diventati in tutto e per tutto più brutti. Le nostre facce non le possiamo cambiare. Verosimilmente saranno ancora lì nel 2029, in mezzo alla folla, ad applaudire.