Per uno che ha vissuto fino all’anno scorso in Sicilia come il sottoscritto, abituato a concerti che iniziano solitamente ben oltre le 22.30, arrivare puntuale per vedere suonare gli Octopus, che prima delle 21 si sono già dileguati, è un’impresa ardua. Quindi, metto piede al Magnolia col cambio palco pre-Ministri già in avanzato stato di preparazione. E non mi prendo neanche la briga di indagare con qualche spettatore a caso su come&cosa gli Octopus abbiano suonato. Ho un bel da fare per pagare e sorseggiare una birra che mitighi la consueta e irrespirabile umidità meneghina.
Bene. Magnolia Parade 2011: ho saltato a pie’ pari la prima serata che vedeva i soli Digitalism come potenziali attrazioni per i miei padiglioni auricolari – che sono assolutamente demodé, sappiatelo. Salto la terza e ultima data in cui James Murphy degli LCD Soundsystem e gli Unkle smanettano sui loro turntables per i soliti dj-set di cui non si può più far a meno per attrarre pubblico nella stessa misura in cui si sono ormai resi insopportabili. Presenzio alla sera di mezzo, l’unica adatta a chi si ciba di chitarre ogni santo dì.
Già detto, gli Octopus me li son persi. Come inviato che deve poi redigere il suo pulito articoletto sono un vero fallimento. Ammissione Numero Uno: dei Ministri conosco sì e no due canzoni e questa è la prima volta che li ascolto dal vivo. Ciò per dire che le parole che vi apprestate a leggere sono state scritte senza alcun sovrappeso o sottopeso emotivo preliminare. Il quartetto gioca in casa e si vede. Il pubblico partecipa, conosce i testi a memoria e dà la giusta carica al gruppo. Che sul palco è a suo agio, dimostrando di essere un act abituato ai live con un gran tiro e un’ottima presenza scenica. I testi hanno un’ottima presa sull’uditorio con quel mix di malcontento giovanile e disillusione sociopolitica che di questi tempi fa cassetta. Quello dei Ministri è un rock compatto e per certi versi muscolare anche se, dopo cinque canzoni 5, la mia attenzione comincia a sbriciolarsi come i biscotti del discount nel latte bollente. Aprono con Il Sole e mi fanno scuotere il culetto come si deve, poi passano per Noi Fuori, Abituarsi alla Fine, poi perdo il filo, che ritrovo solo a fasi alterne. Credo che dovrebbero diversificare un po’ le melodie vocali e sforzarsi di cavare qualche bel riffone di quelli che ti stendono per diventare davvero un grandissimo gruppo. I numeri ce li hanno.
Il cambio palco è un’occasione imperdibile per un giretto tra gli stand del festival, una breve sosta per una salubre e liberatoria diuresi e per una traversata della collinetta dove si è riunita una discreta folla davanti al palco dalle cui casse esce un raggamuffin che mi mette in fuga seduta stante. L’avevo detto io che sono un demodé da quattro soldi.
I Mogwai salgono sul palco rispettando l’orario stampigliato sul volantino tra le mani di Karol Firrincieli, collega del Cibicida che mi è qui di compagnia. Ammissione Numero Due: non sono un fan della band scozzese, ogni volta che mi applico – anche sforzandomi – su un loro album, raramente riesco ad arrivare alla fine tutto d’un fiato. Sarei comunque un eretico-pazzo-e-ancor-più-ignorante se non ne riconoscessi l’importanza storica e l’immensa influenza in più di un filone della musica rock dalla metà degli anni Novanta a oggi. Il sottopeso emotivo preliminare qui c’è.
Partono timidi, poi fanno alzare le maree, alternano momenti di placidità ad altri dove la distorsione abrasiva satura il flusso sonoro, i Mogwai mi sorprendono dato che attendevo un set più soporifero. Alcuni momenti sono avvolgenti, come Hunted By A Freak con Barry Burns che dipinge la sua nenia vocale col vocoder, spesso presente tra le canzoni proposte. Stuart Braithwaite e soci ci mettono del loro con partecipazione emotiva evidente e con frangenti ai limiti del solenne, ma il loro stile, fondato come tutti sanno su un’idea melodica ripetuta ossessivamente e stratificata, se non è supportato dalle giuste dinamiche, perde di efficacia. Il problema qui non è il gruppo, bensì il fonico, che tiene il volume a guinzaglio come se fossimo tutti riuniti in pieno centro cittadino sotto il balcone della vecchia rompicoglioni che chiama il 113 appena si varca la soglia di silenzio ovattato che le è garantita dalla sordità senile. Per chi non lo sapesse, il Magnolia è fuori Milano. La performance dei Mogwai è quindi lesa da questo volume troppo basso per gli standard del sottoscritto e di qualcun’altro tra i presenti. Poco male, i brani scelti filano comunque dignitosamente, ma avrei voluto assistere alle esplosioni metalloidi di “Like Herod”, che qui non è stata proposta. Una cosa che, lo ammetto, mi ha profondamente addolorato.
A cura di Marco Giarratana