Forse occorre fare un passo indietro. Occorre prima accennare un rapporto, difficile e duraturo, come quello tra cinema e musica. Occorre tener presente il gesto delle mani, che s’intrecciano. E pure quello di un braccio che sorregge l’altro. Perché l’equivoco, nel caso delle sonorizzazioni dal vivo, è quello di pretendere di assistere a un concerto. E invece si assiste, nel rapporto gerarchico immagine/suono, a una proiezione. Sorretta – l’architettura ci viene incontro – da una sì detta colonna sonora. Un esercizio di funambolismo vero e proprio, specie se proposto in veste live. Un gioco di equilibri che non può essere mai del tutto servizio e mai, del tutto, protagonismo. Un sottilissimo filo del rasoio sul quale si sono spinti, con grande coraggio, anche gli islandesi Múm.
Nel loro caso, vista la pellicola scelta, il rischio era molto alto. “Menschen am Sonntag”, tra i primi capolavori di un allora sconosciuto Billy Wilder, è una pietra miliare ritrovata del cinema muto: capolavoro della Nuova Oggettività ignaro ai più che legò, attorno a un solo progetto, personaggi che di lì a poco avrebbero fatto la storia della settima arte. Oltre al sopra citato Wilder, sceneggiatore, un certo Fred Zinnermann operò dietro la macchina da presa, diretto dai fratelli Siodmak, Egard G. Ulmer e Rochus Gliese. Chiedere a Google cos’avrebbero combinato. Un collettivo di artisti come lo sono, in fondo, i Múm, per l’occasione ridotti al duo originario: Örvar Smárason e Gunnar Tynes. La coppia entra in scena poco prima che il film vada in play: la sfida è quella di portare la Berlino del XXI secolo nella Berlino, spensierata e finalmente in ripresa, del 1929. Una Berlino in cui la guerra è un’ombra consapevole del passato e del tutto oscura del futuro. Una Berlino in cui quattro giovani, “Gente di Domenica” (questa la traduzione del titolo), trascorrono la giornata di riposo immergendosi in amori e miserie assai prossime, tutto sommato, alla generazione odierna.
Il tessuto elettronico è sempre ben amalgamato coi fotogrammi: mai una riga sopra, forse ogni tanto – correttamente – una riga sotto. Le scene più rappresentative non sono sottolineate con pedanteria né anticipate con inutili manierismi: la voce dei synth non sommerge in nessun momento l’immagine priva di suono. Solo una cavalcata di beat conclusivi accompagna il finale con più decisione e rivela, ai folti presenti, l’effettiva e principale presenza di una band on stage. Titoli di coda, applausi: meritatissimi. Le luci si accendono e si è doppiamente arricchiti. Certuni lamentano l’assenza dei sottotitoli in inglese. Poco male, pensateci bene. Non sarà certo lo stesso, ma almeno vi toccherà rivederlo.