Chissà come succede che un quartetto di musicisti folk rock riesca a farcela nel XXI secolo. Ho tentato di darmi una risposta razionale e vagamente oggettiva per tre anni, sebbene sia ben conscia del fatto che nella musica l’universalità conta zero. Giovedì sera ero proprio intenzionata a capire, per poter poi sbugiardare scientificamente i numerosi sicofanti che vanno proclamando la zuccherosa banalità del verbo mumfordiano. Fatevene una ragione, scettici tutti, Mumford e Figli sono un vero prodigio. Sold out a tre ore dall’apertura delle prevendite, ma nessun cambio di location. Menomale, l’Alcatraz rimane uno dei migliori locali per concerti in città e l’unica alternativa di dimensioni maggiori, il Forum, sarebbe stato asettico quanto una sala operatoria. E qui si è gente del popolo, non chirurghi plurilaureati alle prese con un intervento rivoluzionario. Entro con comodo, il solitario Jesse Quin (già bassista dei Keane) sul palco.
Prendo posizione, mi guardo un po’ intorno per constatare un’inaspettata concentrazione maschile – altro che “questi fanno roba da femminucce” – e un altrettanto inattesa carenza di camicie a quadri, infine mi concentro sul musicista. E sapete cosa? Lo sconosciuto Jesse viene accompagnato da Marcus Mumford. Sì, accompagnato, neanche la star della serata fosse lui. Ma, ancora meglio, per il pezzo successivo anche Ted Dwane e Winston Marshall si uniscono alla comitiva. Un gruppo di amici che suona per svago, alla grande. Poi è la volta delle Deap Vally. Il nome avrebbe dovuto far capire che quello che stavamo per sorbirci sarebbe stato un siparietto di livello artistico discutibile, ma noi, ingenuo pubblico, ci si lascia stupire: una coppia di aspiranti Black Keys al femminile. Seminude, a favor di pubblico. Commenti di ogni tipo da ogni dove, tentativi di interazione che sfociano in una carrellata di allusioni porno-soft da parte del pubblico, un Mumford al contrabbasso che le raggiunge – assolutamente vestito – per accompagnare uno dei loro formidabili pezzi tutti uguali, grazie e arrivederci.
A questo punto della serata i Quattro hanno già dato un saggio preventivo del loro entusiasmo concertistico. Alla faccia di chi dice che la sposa non deve farsi vedere in abito bianco prima della cerimonia. Tre, due, uno, via. Con Babel. “Then the walls of my town, they come crumbling down”. Viene giù anche il locale, travolto da una band scatenata e da un pubblico in visibilio, che canta ogni singolo respiro di Marcus, salta ogni movimento del ramingo Ben, ride della risata stupita di Winston, suda assieme allo scalmanato Ted. Una festa di paese, una celebrazione comunitaria, di quelle che nel mondo reale non si vedono quasi più. Com’è bello. Quindi Whispers In The Dark, poi White Blank Page. Uno schiaffo buttato fuori a pieni polmoni. E non venitemi a dire che i Mumford sanno parlare solo d’amore melenso e belle speranze. La vita può far male, e fa male. Allora è giusto cercare nella musica l’antidoto, la cura. Marcus doveva avere tanto risentimento dentro quando l’ha scritta e tanto bisogno di sfogarlo. Lodato sia quel giorno.
Dunque la struggente Holland Road, la trascinante Little Lion Man e Timshel, ninnananna che riconcilia con il mondo. E ancora Lover Of The Light. Tutte le lampadine che in lunghe file percorrono l’intero locale sono accese, fioche ma suggestive, e quelle bianche sopra il palco, un po’ scodelle un po’ parabole, s’infuocano all’esplodere del ritornello. E’ un tripudio luminoso questa celebrazione della Luce. Vanno in scena poi la dolente invocazione Thistle & Weeds, il raccoglimento con gli occhi colmi di attese di Ghosts That We Knew, l’altro inno Hopeless Wanderer. I Mumford si divertono, giocano con il loro stentato italiano e tracannando litri d’acqua, per la birra esistono i pub. Poi Awake My Soul, Roll Away Your Stone e DustBowl Dance, infuriata conclusione di un set perfetto. I ragazzi sul palco strapazzano i loro strumenti, in una danza violenta, che esorcizza i demoni e chiude i conti con un passato doloroso.
Marcus, madido ed ebbro dopo aver pressoché fatto macerie della batteria, recupera arrancando sui piedi instabili il centro del palco per il biblico atto finale “I know what I’ve done, cause I know what I’ve seen. I went out back and I got my gun, I said: ‘You haven’t met me, I am the only son’”. Caino, splendido. Riappariranno i Quattro su una balconata laterale, nella penombra, per Sisters, rigorosamente a cappella, infine di nuovo sul palco, per Winter Winds e The Cave, degna chiusura di un live come dovrebbero essercene di più. Hanno proprio l’aria di gentiluomini girovaghi questi Britannici, con l’entusiasmo ed il vigore della gioventù dalla loro, tante cose da dire e tanta voglia di raccontarle. Ed è meraviglioso sapere che, in ascolto, ci sarà chi continua a credere e ad amare la Luce, non importa in quanto buio sia immerso. Così è la festa dei lovers of the light.
SETLIST: Babel – I Will Wait – Whispers in the Dark – White Blank Page – Holland Road – Little Lion Man – Timshel – Lover of the Light – Thistle & Weeds – Ghosts That We Knew – Hopeless Wanderer – Awake My Soul – Roll Away Your Stone – DustBowl Dance —encore— Sisters – Winter Winds – The Cave