«Strepitosa», dice. «Ora vedrai, è strepitosa». Mi siede accanto, indossa una camicia a maniche corte dalla fantasia improbabile. Si rivolge alla figlia; ma questo lo capirò solo più tardi. Il gelsomino, sopra il palco, atterra sulla tastiera e s’intrufola tra gli strumenti. Come i bambini che, mandati a letto dai genitori, chiamano gli altri a raccolta per disertare, spiare le conversazioni apparentemente illuminate di chi ha più anni di loro. Finché qualcuno non se ne accorge: e all’ossequioso, imbarazzato timore d’un rimprovero subentra la gioia dell’approvazione, la conquista di quella zona proibita che è il crepuscolo. La gente siede composta, silenziosamente. Shara Worden, di bianco vestita, dà il La ad un’esibizione encomiabile con We Added It Up, brano posto a battesimo del nuovo, elegantissimo “All Things Will Unwind”. Ad accompagnarla, stasera, la classe maestosa di Earl Harvin: valore aggiunto alla batteria che fa del duo una formazione perfettamente simbiotica. La grazia diamantina della Nostra spadroneggia garbatamente: «It takes a lifetime to learn how to love / It starts with a flicker that bursts into flame / Then it fades to an ember with fights / And with fingers pointing out blame»; è Escape a tenere il passo, seguita dall’ormai nota, armoniosa Be Brave. La Worden non smentisce la sua fama d’eccezionale performer: danza come una stella, indossa la maschera che l’accompagna tra le righe del singolo sopra citato («And so I don my mask and finger bells»), cambia più d’un copricapo per aggiungere brio ad uno spettacolo che, in assenza di tutto ciò, sarebbe stato comunque da ritenersi pregiato. La serata prosegue. Sono stavolta brani come Dragonfly, Apples e Workhorse a tenere banco, tratti dai due precedenti lavori dell’artista statunitense: “A Thousand Shark’s Teeth” e “Bring Me The Workhorse”. High Low Middle, infine, e la splendida Inside A Boy sembrano chiudere il sipario su un’esibizione che, dopo un’ora appena, non poteva che rendere ancora affamati gli spettatori, correttamente entusiasti. My Brightest Diamond fa dunque ritorno, per ben due volte, sul palco. Accolta e sostenuta dai consapevoli applausi di chi ha l’onore di godere la tersa morbidezza della magnifica I Have Never Loved Someone The Way I Love You prima, e l’incalzante frenesia d’una Freak Out in salsa punk poi. Il mio vicino, ancora una volta, si rivolge alla ragazza che gli sta accanto; «Allora? E’ o non è strepitosa?». Io penso alla voce dorata di Josephine Foster, alla fragilità ardente di Lisa Germano, alla composta sensibilità di Marissa Nadler, all’oscura maestria di Carla Bozulich: cantautrici del mio tempo, passate da Catania, mai dimenticate. Aggiungo un altro nome alla lista, dopo stanotte, mentre mi volto nel cogliere una risposta ed un suono nuovo, privo di timidezza e ripensamenti. «Strepitosa, papà! Strepitosa!». Il gelsomino precipita ancora, senza far male. I bambini, mi dico, sono diventati grandi.
A cura di Michele Leonardi