Questo non è un report, ma un film di Tarantino, perciò partiamo quasi dalla fine. I My Chemical Romance sono una vera e propria istituzione per la generazione degli emo (ormai ex) kids. Alle 21:00 spaccate vengono accolti a gran voce da una folla di almeno ventiseimila persone all’Arena Joe Strummer, fan della vecchia guardia e tante, inaspettate e giovani reclute, reduci da una giornata di fuoco. Assestano il primo fatal colpo con la nuova e potente The Foundations Of Decay apparendo subito in gran forma, per poi ingranare con il bel crescendo fatto dai cori di I’m Not Okay (I Promise) e le scatenate Give ‘Em Hell, Kid e Na Na Na (Na Na Na Na Na Na Na Na Na), dove le chitarre di Frank Iero e soprattutto Ray Toro dominano la scena, passando per le atmosfere tenui di Summertime e culminando con gli ottimi passaggi strumentali, in cui risaltano anche Mikey Way e Jarrod Alexander, rispettivamente basso e batteria, di You Know What They Do to Guys Like Us in Prison.
Momento di spicco è la tenera richiesta al pubblico di cantare una canzone di compleanno alla piccola Kennedy, figlia di Mikey, che sottolinea il dialogo e la gratitudine che intercorre da sempre tra la band e la solidissima fanbase, riprendendo con i manifesti generazionali da urlare a squarciagola Teenagers e Famous Last Words, e la dolorosa e spezzacuore The Ghost of You. Dopo i loud riff di Vampire Money e Thank You For The Venom lo show si ferma per un breve istante: passano una quantità smodata di barelle una di seguito all’altra, come non se ne vedono solitamente, in fondo, per un concerto del genere (non pareva si stesse picchiando nessuno, per farla breve) e Gerard Way chiede che venga distribuita molta più acqua a coloro che accusano il colpo. È solo e soltanto colpa dei soliti fan sfegatati e super affezionati che si sono fatti ore e ore di fila?
Ore 13:00 circa, solleone, l’apertura porte alle 15:00 implica un po’ di anticipo per tentare di avere un buon posto, agognando al PIT, e di conseguenza l’iniziare a mettersi in fila. Ma… Fila unica o più file? Il trambusto generale è totalmente incomprensibile con controlli di biglietti e consegna anticipata di braccialetti per la PIT area da una parte, e gente in coda dalla mattina presto ancora ferma e a bocca asciutta (letteralmente) dall’altra, oltre a chi sequestra direttamente bottiglie d’acqua, senza la possibilità di tenerle sbarazzandosi semplicemente del tappo, per poi portarne di proprie, giusto ogni tanto, a gentil e generosissima concessione, con un quantitativo di persone accalcate da capogiro (e infatti i primi cali di pressione iniziano a farsi sentire da subito).
Non è raro vedere qualcuno con ombrelli, anche rotti, che riappariranno durante le prime band di apertura con il rischio concreto di beccare gli occhi di qualche malcapitato, ma in tutto ciò il problema per chi gestisce sono l’acqua (nelle bottiglie degli altri) e le cremine solari (molto meglio gli ombrelli rotti per ripararsi, effettivamente). La coda avanza lentamente e senza una logica, mi giro e vedo un cimitero di rifiuti e plastiche varie da film catastrofico che ha per antagonista il classico tornado. Sul manifesto vicino all’ingresso si leggono scritte incoraggianti relative all’evento, rigorosamente “plastic free”. Una volta dentro, l’ago della bilancia non si sposta di molto, la confusione è presente e si sente, non è chiaro se sia dovuta allo spaesamento dopo la pandemia o all’errata decisione di gestire alla leggera un sold out simile, scontato, dati i quasi tre lunghi anni in cui i biglietti sono rimasti in vendita.
Tra zaini assurdi e voluminosi, borse frigo e chi si è letteralmente portato dietro la casa, quando il regolamento vieterebbe tutto ciò, il primo gruppo di apertura fa capolino sul palco alle 18:00 precise: i losangelini e garage-punkettosi Starcrawler, capitanati dalla carismatica e biondissima Arrow de Wilde, figlia della celebre fotografa e regista Autumn de Wilde e del batterista Aaron Sperske, la cui voce forse ha probabilmente visto giorni migliori, nel complesso tengono bene il palco e strappano i primi battimani con le discrete cover Pet Sematary dei Ramones e If You’re Gonna Be Dumb, You Gotta Be Tough di Roger Alan Wade, e l’headbanger Bet My Brains. L’afa aumenta, qualcuno inizia a crollare e la gente si stringe ulteriormente sotto il palco con l’arrivo dei goth-punkers inglesi Creeper di Will Gould, pallido spilungone vanesio con ciuffo pseudo-rockabilly e giacchetta di pelle nera, su cui si concentra praticamente tutta l’attenzione, rubata solo dalla polistrumentista Hannah Greenwood durante l’esecuzione di Midnight; si fanno notare con la loro anthemica Down Below.
L’atmosfera è sempre più soffocante, ed è quando inizia a sentirsi male qualcuno a cui tengo, e realizzo di non esser particolarmente in forma pure io dopo il travaglio precedente, che monta una rabbia ancor più sostenuta: l’acqua è un lontanissimo miraggio per chi è in zona PIT, e ho visto più bottiglie passare da una bocca ad un’altra per solidarietà (apprezzabile) in questo caso, come non mai in concerti pre-covid, ideale in un momento simile, dove nonostante la vita abbia ripreso a scorrere “normalmente”, i rischi non sono comunque azzerati. Uscire per trovare da bere, a pagamento nel PIT e gratis alle fontane fuori, diviene una necessità e rientrare non è impresa semplice. Il terzo ospite, Barns Courtney, è talmente bravo a stare sulla scena e di una bontà irresistibile (sbilanciamoci) che con le sue esplosive Fun Never Ends, Glitter And Gold, “99”, Kicks ed Hands fa lentamente passare il nervoso.
Ma in tutto questo, le persone che si sentono male sono in netto aumento, e sono a malapena le 20:00, la tempestività nei soccorsi non si mette in discussione, fortunatamente, così come il buon senso comune nell’aiutare chi è in difficoltà ad uscire dalla calca. Ormai l’andazzo è quello di vendere qualche biglietto in più del consueto, risparmiare su tanti “benefit”, magari in qualche caso farlo in futuro su certe location, per poi finire come a Roskilde il 30 Giugno del 2000. I ben e meglio informati sanno esattamente di cosa si sta parlando, in quanto a massima ed estrema portata del danno. Non siamo carne da macello o bestie da soma in un carro, ma fottuti spettatori paganti, e quelli sul palco non sono giullari di corte, ma artisti che meritano rispetto, indipendentemente da chi siano.
Con un balzo nel tempo torniamo a metà dell’esibizione di Gerard Way e soci, con una potente DESTROYA, accompagnata da una quantità d’acqua (e di conseguenza bottiglie) che nemmeno il Nilo contiene. Era necessario che la band sottolineasse il disagio per evitare che la situazione andasse totalmente a rotoli? Continueremo a porci queste domande esistenziali fino alla chiusura, la quale non poteva che comprendere Welcome To The Black Parade e l’encore con l’addio e la buonanotte nera (per qualcuno veramente molto) di Helena e il nostalgico e perfetto finale The Kids From Yesterday.
Chicca bonus: chi prima arriva meglio alloggia, tale politica è normale e non si discute, ma i mega schermi sono inesistenti. Le persone ben lontane dall’area sottopalco avranno dovuto lavorare di fantasia, cosa non accaduta negli altri show europei. Risparmio su una regia minima e sulla corrente elettrica? A questo punto non si stupirebbe più nessuno. Un concerto meritevole, senz’altro per gli artisti che hanno letteralmente saputo stregare i presenti. Per tutto il resto, ci sentiamo in dovere di recitare, e soprattutto dedicare, un bel Ezechiele 25:17 a certi “Zucchini” e certe “Conigliette”.
SETLIST: The Foundations Of Decay – I’m Not Okay (I Promise) – Give ‘Em Hell, Kid – Na Na Na (Na Na Na Na Na Na Na Na Na) – Summertime – You Know What They Do To Guys Like Us In Prison – Teenagers – Famous Last Words – The Ghost Of You – Vampire Money – Thank You For The Venom – DESTROYA – House Of Wolves – Boy Division – Mama Welcome To The Black Parade —ENCORE— Helena – The Kids From Yesterday