Terza giornata per l’I-Days Festival 2018 che, dopo la parentesi legata ai Pearl Jam (con relativo spostamento della location, seppur a pochi metri di distanza), ritorna presso l’ottimo Open Air Theatre, che anche regala ancora un’acustica superlativa. La capienza del teatro all’aperto di Expo è nettamente inferiore rispetto all’area limitrofa che ha ospitato la band di Seattle, ma il colpo d’occhio è comunque imponente, con i diciassettemila posti disponibili andati sold out.
La maratona musicale comincia molto presto, con la giovane promessa nostrana Joan Thiele, che apre la giornata con il suo ottimo pop in salsa black che merita ascolti futuri più approfonditi. L’impressione è che renda più dal vivo che su disco, dunque il talento sembra esserci tutto. Giusto il tempo di scroccare un po’ di cibo negli stand degli sponsor (mai così magnanimi come quest’anno), che alle 17:30 inizia l’esibizione di Isaac Gracie, giovane e talentuoso songwriter londinese che sembra avere la stoffa del predestinato: apparentemente fuori contesto, tiene splendidamente la scena aiutato da una straordinaria voce e da un repertorio intimo ma vivace al tempo stesso. Forse la più bella sorpresa di questi I-Days.
Avvicinandosi al tramonto, cresce man mano la popolarità degli artisti che salgono sul palco: è la volta dei Ride, band di culto dei primi anni ’90 che dopo la recente reunion si è garantita una seconda giovinezza, grazie alla popolarità acquisita da Andy Bell con gli Oasis e a un ottimo nuovo album che ha segnato il loro ritorno sulle scene. I nuovi Ride sono più pop rispetto allo shoegaze dei loro esordi, ma mischiare queste due anime non è per loro un problema visto che suonano da primi della classe: lo si capisce bene ascoltando l’iniziale Lannoy Point, che sarà la canzone migliore del loro fin troppo breve set. Una scaletta di appena sette canzoni, dove – cosa ancor più grave – manca incomprensibilmente la loro pietra miliare “Drive Blind”, onnipresente nei loro concerti. Pazienza.
Poco dopo salgono sul palco i Placebo, annunciati in locandina come “very special guest”: non è un caso, visto che suoneranno più canzoni dell’headliner di serata. È vero, Brian Molko e soci album dopo album sono diventati sempre più tamarri, ma dal vivo la nuova formula (chi vi scrive li aveva visti nel lontano 2003) funziona: il cambio di batterista è stato provvidenziale per aumentare la resa live della band, che – complice la carriera ventennale – può sfornare una setlist piena di hit, ideale per scaldare anche i non appassionati del genere. For What It’s Worth, Slave To The Wage, Special K, Song To Say Goodbye, The Bitter End: è questa la cinquina che infiamma il pubblico e che valorizza al meglio la formazione inglese, con buona pace dei puristi del caso.
Ore 21:30: è previsto il live di Noel Gallagher con i suoi High Flying Birds, ma l’ex leader degli Oasis accumula un inusuale ritardo che lo porterà a esibirsi venti minuti dopo. Il perché è presto detto: la scaletta di Gallagher (così come accaduto per i Ride e altri artisti) è quella concepita per un festival ed è breve, molto più breve rispetto a un suo classico concerto. Per rendere l’idea, saranno ben sette a fine serata le canzoni mancanti rispetto alle altre date del suo tour italiano. Tagli chirurgici e dolorosi, ma che non impediscono al chitarrista di Manchester di rendersi protagonista di un’esibizione memorabile. Tutto sembra essere al posto giusto: un repertorio collaudato, il pubblico caloroso, un’acustica eccezionale, e soprattutto una band in forma smagliante con la quale Gallagher sembra avere trovato il suo equilibrio definitivo, con buona pace dei nostalgici degli Oasis.
Qualche canzone in più non sarebbe guastata, ma questi sono i tempi dei festival, tempi ristretti che vedono “suonare” poco dopo uno dei più famosi dj del mondo, Paul Kalkbrenner. Le virgolette non sono ironiche, perché l’artista tedesco (tantissimi i suoi fan) fa il suo ed è protagonista di un ottimo dj set: semplicemente, per noi vecchia scuola suonare significa altro. Mentre ci avviamo verso la metro, l’albero della vita di Expo – riacceso intelligentemente per l’occasione – sorveglia a debita distanza il festival, sulla cui riuscita non sembrano esserci troppi dubbi: ci saranno pochi artisti, non sarà al livello delle più importanti rassegne straniere, ma sempre di festival si tratta e l’Italia musicale ne ha un gran bisogno.