L’ATTESA: Alle volte si dimentica un po’ quello che certi artisti sanno dare. Altre volte lo si fa perché l’ascolto in disco, inevitabilmente, solleva uno schermo impenetrabile tra chi riceve e chi suona. L’ascolto, il riascolto, e l’ascolto ancora di un lp, vive di traumatiche meteoropatie e di complesse dinamiche umorali, la maggior parte delle volte, difficilmente teorizzabili. Così, quando colui che ha solcato il cd ce lo hai davanti, quando è lì che tiene stretto tra le mani un microfono, quando la musica è live ed è sanguigna e arriva direttamente al petto, allora sì che tutto torna più chiaro, allora sì che si ricomincia a far pace con certa roba che certi artisti sanno fare da dio. Il primissimo atto del concerto-evento dei Pearl Jam a Verona si è sviluppato ancora fuori dalle splendide arcate della mitica arena: quando le lancette segnavano le 18 e la gente passeggiava comodamente tra le vie gioiello della città veneta, il suono di una chitarra acustica è evaporato improvvisamente nell’aria, uscendo dalle “porte chiuse” dell’anfiteatro romano. A quegli arpeggi, poi, si è aggiunta una voce splendente e pulita: era Eddie Vedder che intonava Immortality nel soundcheck pomeridiano. La gente s’è letteralmente fermata. Chi stava camminando ha frenato nettamente il passo, chi era distratto ha rizzato le orecchie, chi era occupato in chiacchiericcio, s’è ammutolito. La voce calda di Eddie, nascosta dentro l’arena, ha rapito e un applauso generale ha commentato entusiasta quella mini esibizione. L’atmosfera è cambiata da quel momento, come se un magnete potentissimo stesse attirando verso l’interno, come se quel canto fossero le sirene del povero Ulisse in mezzo al mare. E quel magnete era Eddie col suo incredibile vocalizzo. Poi, la pioggia. Una pioggia battente e continua che ha annaffiato Verona per benino. Quando, a cancelli aperti, sul palco salgono i My Morning Jacket con il loro rock androgino, il cielo s’è schiarito, per la verità. Ma per annerirsi, subito dopo, ad esibizione conclusa. L’attesa per i Pearl Jam, così, s’è fatta ancora più sofferta. Non solo i sei anni dall’ultimo tour europeo – era il tempo di Binaural, delle vittime di Roskilde e delle decine di bootleg ufficiali – ma anche un nubifragio insensibile e spocchioso.
IL CONCERTO: Luci spente. Palco al buio. Negli amplificatori la strumentale Master/Slave (ricamo sonoro dell’apertura e della chiusura di “Ten”). Delle sagome calcano il palco e prendono posizione. Tripudio della folla. Eddie abbraccia l’asta del microfono, sono quindici anni che è in pista, ma veste sempre con le solite camicie aperte e porta gli stessi capelli degli esordi. Parte una toccante Release. I 15.000 dell’Arena inondati di pioggia cantano in coro il brano dedicato al padre di Vedder, in un inizio splendido per intensità e partecipazione. Quando l’emozione è ancora forte, poi, arriva Given To Fly, quasi inaspettata come numero 2 della scaletta. Là il concerto raggiunge un punto altissimo: le luci rintracciano i volti dei nostri, schierati come storia li ricorda: Eddie al centro, alla sua destra Jeff Ament e più in fondo Mike McReady. Alle sue spalle Matt Cameron seduto tra le pelli, ed infine Stone Gossard sulla sinistra con il suo precisissimo lavoro di chitarra. Un po’ più nascosto, inoltre, siede al piano Adam “Boom” Kaspar. “Given To Fly” è il brano che molti fan dei Pearl Jam aspettavano. Con quell’incedere magnifico, con quella leggenda “dell’uomo portato a volare” dopo aver spezzato le catene. Eddie sfodera tutta la sua potenza vocale e, c’è da giurarci, ognuno dei paganti avrà pensato che “diavolo passa il tempo, ma la sua voce rimane intatta”. Da lì la pioggia si fa ancora più devastante, Eddie prende in giro il pubblico masticando nel suo italiano ballerino: “siete veramente belli quando siete bagnati”. Il cielo si gonfia e l’Arena, illuminata da luci suggestive e tagliata da terribili fendenti, si dipinge di una particolare suggestione, qualcosa di epico, qualcosa legato al passato. Gossard decide che è il momento di accelerare un po’ e Corduroy, World Wide Suicide e Do The Evolution sono il trittico giusto per farlo. Mike McCready è in forma smagliante: parte coi suoi riff, porta la chitarra dietro la schiena, ammicca alla prima fila, duetta con Ament. Tra le perle del set sicuramente Even Flow (da bocca aperta l’assolo di batteria di Matt Cameron), Marker In The Sand, Jeremye Betterman. Eddie prosciuga una bottiglia di vino dopo l’altra e si dimena, percorre su e giù il palco, apre le braccia per cingere il parterre, perde il suo sguardo verso la meravigliosa cavea dell’Arena. Ogni tanto prende il microfono e parla: “Ho letto nei giornali di oggi che per i Pearl Jam l’Italia è come una seconda patria. Normalmente i giornali sbagliano, ma questa volta è vero”. Dopo una pausa meritata, il primo bis si apre con un duplice omaggio alla memoria di Johnny Ramone, grande amico dei Pearl Jam. Prima Come Back, brano dalle cadenze soul tratto dall’ultimo omonimo e dedicato alla sua memoria, e poi la cover dei Ramones I Believe In Miracles. Il secondo encore è un capolavoro assoluto: Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town, Once, Alive e poi il “classico finale” Rockin’ In The Free World e Yellow Ledbetter non prima di aver improvvisato una My Sharona, storpiata per l’occasione in “My Verona”. La pioggia – che durante il concerto sembrava non “far più male” al pubblico, infatuato com’era dell’esibizione senza alcuna pecca – ha poi lasciato spazio ad un cielo più sereno ed appagato. Le strade di Verona alla fine del concerto avevano uno strano profumo: quello della pioggia e quello della storia.
SETLIST: Release – Given To Fly – Corduroy – World Wide Suicide – Do The Evolution – Severed Hand – Love Boat Captain – Even Flow – 1/2 Full – Gone – Not For You – Grievance – Marker In The Sand – Jeremy – Wasted Reprise – Better Man – Blood —bis 1— Inside Job – Come Back – I Believe In Miracles – Porch – Life Wasted —bis 2— Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town – My Sharona – Once – Alive – Rockin’ In The Free World – Yellow Ledbetter
A cura di Riccardo Marra