Eddie stappa la bottiglia di vino coi denti. S’era ripromesso di non bere dopo la sbornia di Milano «ma almeno un brindisi con gli amici di Trieste – dice col suo italiano ballerino al pubblico del Nereo Rocco – lo devo fare». E così è: giù un bel sorso e si comincia la festa. Sì, la festa. Perché un concerto dei Pearl Jam è sempre una specie di rituale legato al concetto di fragorosa baldoria collettiva. E ogni volta la domanda è sempre la stessa: arriverà mai “il tempo di emanciparsi”? Il testo di Rearviewmirror ci viene in aiuto per questa considerazione. In che senso emanciparsi? Beh, rispetto al gusto per certa cerimonia rock “da collezione” che ci spinge a conservare in vitro tutto quello che fu: Seattle, il grunge e gli anni più belli della nostra vita. Dobbiamo superarle certe cose o fregarcene? Il dubbio è lecito, la risposta è semplice: no. Il pubblico dei Pearl Jam non è pronto per emanciparsi, vuole godersi i Ragazzi, lì con le solite barbe e capelli lunghi, anche se ormai ragazzi non lo sono più. Un pubblico che sa di vivere in maniera patologicamente nostalgica, ma che in fondo se ne compiace. Che poi, in fin dei conti, i Pearl Jam non vivono questa cosa del rock come antiquariato di emozioni, né tantomeno come gossip a cinque stelle. Lo capisci da come stanno sul palco con quell’atteggiamento da “into the wild”, quel ribollire naif tra balli e semplicità, con uno spirito infantile mai scalfito dal peso dei dollari. E il loro pubblico, noi, siamo come loro. Ci piace coprirci di vestiti sdruciti, con stampe su t-shirt e con quel volto che mima: “i tempi di Ten, erano un’altra cosa”.
L’ultima volta dei Pearl Jam in Italia nel 2010 fu nell’edizione fulmini e saette dell’Heineken Jammin’ Festival a Mestre, con tanto di tromba d’aria devastante. Il Nereo Rocco, oggi, è invece stadio ospitale, aperto, con un’atmosfera lontana da ansie e pressione. L’evento è per tutti e con tutti, lo rimarca l’uso di una regia che ci propone di continuo mega-selfie dei Pearl Jam sugli schermi laterali. La setlist è generosa: 35 pezzi per oltre tre ore con la precisa intenzione di sfiancarci di emozioni e stanchezza fisica. Perché impattare con Black, Given To Fly, Corduroy, Jeremy o Even Flow significa prendere una coltellata sentimentale che manderebbe al tappeto anche il più freddo degli snob. I Pearl Jam suonano queste canzoni non con il dovere di farlo, ma con la curiosità di vedere come vengono fuori dopo tanti anni. Insomma, tipo sfogliare un album di vecchie foto. Ma ci sono anche i pezzi nuovi, quelli di “Lighitning Bolt”: brani, ahinoi, privi della stessa tensione di un tempo. Cioè, mica sono brutte Sirens, Infallible o Getaway, ma non raccontano un mondo, al massimo lo sfiorano; non scavano nella carne di un feeling, forse lo spiano da lontano. E non c’entra nulla la retromania perché, ad esempio, Unthought Known da Backspacer (2009) è una delle esibizioni più intense del set. Nella maratona PJ si salta e ci si ferma, si urla e si chiudono gli occhi. E poi c’è anche il tempo del ricordo, quello di due personaggi molto cari a Vedder e compagni, prima Come Back, dedicata alla memoria di Johnny Ramone (Eddie gli ha dedicato una specie di preghiera pagana con l’aiuto del pubblico), e poi Chloe Dancer/Crown Of Thorns (momento top dell’intero concerto) che riporta alla mente la folle genialità di Andy Wood e della sua creatura: i Mother Love Bone.
Nelle tre ore di live non è tutto perfetto, ad esempio le prestazioni di Stone Gossard e Jeff Ament un po’ sottotono soprattutto se paragonate a quelle di Mike McCready e Matt Cameron. E poi c’è Eddie. Un caso a sé. Una specie di passeggero extraterrestre nel magic bus della vita. Un artista baciato dal sogno e dalla bellezza. Con una voce spettacolare, una presenza eccezionale, un’onestà quasi irritante e soprattutto con una voglia che è esempio per tutti. Lui cavalca il suono, lo fa detonare, è pubblico quando suonano i suoi ed è fratello del pubblico quando ha in mano il microfono. La sua storia è un po’ la nostra e il suo invecchiare è il nostro crescere. Ha 49 anni ma ne dimostra 21 come il numero che ha stampato sulla sua t-shirt. Better Man, Alive, Once, nel secondo encore, ce lo riportano al passato di ventenne che combatte con i suoi fantasmi familiari ed esistenziali. Le finali Rockin’ In The Free World e Yellow Ledbetter, invece, ci mostrano, quasi fosse una palla di vetro, quale sarà il suo futuro di maturo cantore americano. Così, la fine è bella come l’inizio, perché è bello il cielo su Trieste. ”It’s time to emancipate” si diceva in apertura. E il momento ancora non è arrivato. Saranno eventualmente i Pearl Jam i primi a comunicarcelo, tra cent’anni o più, si spera.
SETLIST: Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town – Low Light – Black – Sirens – Why Go – Animal – Corduroy – Getaway – Got Some – Given To Fly – Leatherman – Lightning Bolt – Mind Your Manners – Deep – Come Back – Even Flow – Down – Unthought Known – Infallible – Whipping – Do The Evolution – Rearviewmirror —encore 1— Let Me Sleep – Chloe Dancer (Mother Love Bone cover) – Crown Of Thorns (Mother Love Bone cover) – Jeremy – State Of Love And Trust – Wasted Reprise – Life Wasted – Porch —encore 2— Better Man – Once – Alive – Rockin’ In The Free World (Neil Young cover) – Yellow Ledbetter