Dire che i Pearl Jam, ed Eddie Vedder in particolare, avessero qualcosa da farsi perdonare dal pubblico italiano dopo la data un po’ sottotono del milanese I-Days Festival, sarebbe esagerato oltre che ingeneroso nei confronti di una band che non s’è mai risparmiata. Ciò non toglie che, conoscendoli e conoscendo la smisurata passione che mettono nel loro lavoro, la band abbia probabilmente voluto dare qualcosa in più del solito negli altri due concerti in programma in Italia. A Padova, domenica 24 Giugno, Eddie aveva già rassicurato tutti sulle condizioni della sua voce, ritornata a splendere in tempi record dopo la laringite che lo aveva colpito a Londra costringendolo a dare forfait. A Roma, città dalla quale i Pearl Jam mancavano dalla bellezza di ventidue anni, hanno fatto ancora meglio: tre ore e un quarto di live, una setlist infinita e un Vedder in forma smagliante che ha tirato fuori dal cilindro una della migliori performance di sempre in terra italica.
Lo Stadio Olimpico non è gremito, quantomeno non nelle tribune, perché il colpo d’occhio del prato che si scorge di tanto in tanto nei maxi schermi è invece sorprendente. A parte il nuovo singolo Can’t Deny Me (che fortunatamente dal vivo suona decisamente meglio che nella versione studio) e un manciata di altri pezzi (Wasted Reprise, Lightning Bolt, Unthought Known, Just Breathe), non c’è praticamente nulla che nella setlist faccia capire che i Pearl Jam abbiano avuto una produzione discografica nel nuovo millennio, segno di come essi stessi si rendano conto di aver perso col passare degli anni un po’ di smalto nella scrittura. Ma ciò che fa da imponente cornice alle tracce citate è qualcosa di impressionante per forza e dirompenza, caratteristiche di un rock da stadio che ad oggi nessuno incarna bene come loro, nonostante i Pearl Jam siano ormai degli ultracinquantenni.
I pezzi della vita, tanto loro quanto dei presenti, stanno tutti lì, ci si commuove come fosse la prima volta nell’inizio affidato a Release, si alzano gli occhi al cielo per Given To Fly e via discorrendo, in un processo catartico che ad ogni loro concerto cui s’assiste va sempre più in profondità nello sterno. E allora l’attenzione è tutta per le parole, le tante parole che Eddie non smette mai di rivolgere al suo pubblico. Parla delle donne e dedica loro Again Today di Brandi Carlile, ce l’ha come sempre con Trump e indossa una bandiera arcobaleno con su scritto “Fuck Trump Love Life”, fa il consueto appello per la pace nel mondo sulle note di una meravigliosa Imagine di John Lennon (con l’Olimpico illuminato a giorno dagli smartphone del pubblico), mentre sugli schermi compare il volantino che da qualche tempo, in Italia, gira in rete, riportante gli hashtag #apriteiporti e #saveisnotacrime, bordata neanche troppo velata al nuovo governo italiano e alle politiche sull’immigrazione.
Le figlie di Vedder stanno lì a un lato del palco, tengono in mano un tamburello e seguono col labiale le parole del padre, mentre sul prato sono tanti i bimbi sulle spalle dei genitori, in un incastro generazionale che è l’essenza stessa del rock, dei grandi eventi rock e delle grandi rockstar, dei messaggi che sanno lanciare e del modo che hanno di unire solo con la forza delle parole. La stessa unione che i Pearl Jam dimostrano di avere oggi molto più che in passato: se a Milano lo spazio lasciato da Vedder ai compagni era sembrato il gancio necessario per portare a termine una performance nata male, a Roma diventa la condivisione che non tante band possono vantare. Stone Gossard rifà nuovamente Mankind, Matt Cameron si mette alla prova alla voce nella cover dei Kiss Black Diamond, Jeff Ament viene elevato al rango di “Dio del basso” da Eddie quando ricorda che è stato proprio il bassista a scrivere Pilate, Mike McCready ha tanto, tantissimo spazio per i suoi assoli di chitarra che in certi momenti oscurano il resto della band e persino lo stesso Vedder.
Dalle prime file volano sul palco striscioni, cartelli, magliette e berretti dei Chicago Cubs, tutto materiale che Eddie poco a poco raccoglie e fa suo, finché non si arriva alla fine con le luci dell’Olimpico accese, Rockin’ In The Free World che riecheggia come un inno e Vedder che non vuole saperne di lasciare il palco, condivide le solite bottiglie di vino, lancia tamburelli e plettri al pubblico, salta come un grillo da un estremo all’altro dello stage. Se c’è mai stato qualche dubbio, seppur minimo, su cosa rappresentino ancora i Pearl Jam, sono performance come quelle di Roma a spazzarli via.
SETLIST: Release – Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town – Interstellar Overdrive (Pink Floyd cover) – Corduroy – Why Go – Do The Evolution – Pilate – Given To Fly – Even Flow – Wasted Reprise – Wishlist – Lightning Bolt – Again Today (Brandi Carlile cover) – Untitled – MFC – Immortality – Unthought Known – Eruption (Van Halen cover) – Can’t Deny Me – Mankind – Animal – Lukin – Porch —ENCORE— Sleeping By Myself (Eddie Vedder song) – Just Breathe – Imagine (John Lennon cover) – Daughter / W.M.A. – State Of Love And Trust – Black Diamond (Kiss cover) – Jeremy – Better Man —ENCORE 2— Comfortably Numb (Pink Floyd cover) – Black – Rearviewmirror – Alive – Rockin’ In The Free World (Neil Young cover)