Come forse vi avranno ricordato pacatamente quei cinquanta simpatici amici sui social network che hanno bombardato l’etere di foto e hashtag, mentre voi eravate nel bagno dell’ufficio a piangere, è appena terminata un’altra edizione del Primavera Sound di Barcellona, uno dei festival più popolari del mondo, che però a differenza di altri riesce ancora a mantenere standard d’offerta musicale qualitativamente altissimi, tra nomi enormi e perle ricercate. La line-up di quest’anno in verità è stata criticata dai frequentatori storici proprio per il tentativo di aprirsi a un pubblico più pop e generalista, ma A) i Migos hanno perso l’aereo e non sono venuti per la gioia dei matusa fan delle chitarre e B) ci sono stati dei momenti musicali (e non) talmente alti che nessuno s’è pentito di essere salito di nuovo su un Ryanair economico diretto alla Catalogna, probabilmente neanche i fan dei Migos, a parte uno su Facebook che voleva chiedere il rimborso. Allora andiamo a ricordarne alcuni di questi momenti, per chi li ha vissuti o per chi non c’era.
L’importanza di avere un’orchestra
Sarà che l’ascoltatore moderno medio, che non frequenta il teatro, non è abituato a una simile ricchezza sonora, ma due dei concerti più travolgenti del Primavera sono stati quelli nei quali era presente sul palco un’orchestra, ovvero Spiritualized e Jane Birkin. Nonostante la band di Jason Pierce fosse il primissimo act del festival, collocato nel giorno inaugurale all’interno dell’Auditorium del Parc del Fòrum, si capiva già durante l’esibizione di star assistendo a una delle cose migliori dell’intera edizione del Primavera, e anche un po’ della vita se è meglio abbondare. Oltre un’orchestra sinfonica, ad arricchire il live c’era un coro a intersecarsi con la voce di J. Spaceman in un modo così efficace nei brani (Shine A Light e Set My Soul On Fire su tutti) che “Ladies and gentleman, we’re floating into space” può essere l’unica descrizione possibile delle sensazioni fisiche e mentali provate durante uno spettacolo simile. Meno d’impatto acusticamente poiché sorretta solo da un’orchestra, senza le chitarre distorte e la batteria degli Spiritualized, ma più toccante è stata l’esibizione di Jane Birkin, che per la prima volta a un festival ha portato le canzoni dell’uomo della sua vita, Serge Gainsbourg, completamente riarrangiate. Durante Baby Alone In Babylon un microfono inizia a fare un fastidioso rumore per un problema tecnico e Jane Birkin per tutta risposta manda un bacio al cielo come se fosse un segno della presenza di suo marito nell’aria di Barcellona. Chi non s’è commosso per un momento simile, o per la bellezza incredibile della musica di Gainsbourg, ha lo stesso cuore di certi arbitri in Champions League. Una performance unica, anche senza “Je t’aime, moi non plus”.
L’importanza di non avere niente
C’è chi, come sopra, era accompagnato da una ventina o più di eleganti musicisti, e chi è salito sul palco da solo ad affrontare l’enorme folla del Parc del Fòrum. È il caso dei rapper Tyler, The Creator e A$AP Rocky, entrambi sul main stage, entrambi soli, con i dj nascosti dietro le quinte. E se riesci a portare a casa da solo le esibizioni più coinvolgenti del festival, allora sei un talento, come direbbe con la “e” aperta Federico Buffa. Certo, entrambi avevano dei visual parecchio elaborati e giochi di luci, dei bassi che spazzavano via l’immondizia per terra e A$AP Rocky ha portato anche un po’ di fuochi artificiali tipo Festa di San Nicola a Bari, ma molte delle band presenti nel cartellone se lo possono sognare un delirio simile da parte del pubblico. Momento a rischio sismico numero uno: Who Dat Boy, con Tyler e A$AP insieme sul palco, qualcosa che non è possibile vedere molto spesso in giro per l’Italia e l’Europa.
Ai festival, alla fine, vogliamo ancora le chitarre
Per quanto si cerchi di accontentare tutte le possibili frange di pubblico chiamando nomi un po’ stranianti, da Skepta ai Kero Kero Bonito, in certi casi particolari riuscendo nell’obiettivo, in altri fallendo miseramente come sta capitando per molte manifestazioni in giro per gli Stati Uniti (vedesi i recenti boicottaggi della stampa allo storico Bonnaroo), nei festival per moltissimi avventori c’è ancora la pretesa di vedere band vere e proprie, con le chitarre e tutto il resto. E nell’edizione 2018 a Barcellona erano presenti praticamente tutte le eccellenze del rock meno heavy e più arty: gli Arctic Monkeys hanno portato al sold out la giornata di sabato nonostante i pareri discordanti su “Tranquility Base Hotel & Casino” (e infatti hanno riempito la scaletta di pezzi tratti da “Humbug” ed “AM”, i più attesi e partecipati dal pubblico), esibendosi in un concerto che non passerà probabilmente alla storia, ma comunque valido; gli Slowdive si sono mostrati più in forma che mai, ancora più compatti e convincenti rispetto ai concerti post reunion di qualche anno fa, per molti il live migliore del festival; i Beach House e i Grizzly Bear, forti di due album pazzeschi usciti nell’ultimo anno, a guardare le classifiche di gradimento finali di stampa e pubblico sono stati alcuni dei più attesi della rassegna e non hanno tradito le aspettative. E poi ancora, un Matt Berninger dei The National che passeggia brillo sul palco e fa cantare a tutto il Forum The System Only Dreams In Total Darkness, i riff da autostrada americana dei The War On Drugs al tramonto di giovedì sera, i Car Seat Headrest che si lanciano in un Drunk Drivers/Killer Whales da pelle d’oca, i deliri distorti di Ty Segall e Ariel Pink, nonostante le lotte di quest’ultimo contro un impianto che all’Apolo non ne voleva sapere di funzionare. Menzione d’onore agli Shellac di Steve Albini, padroni di casa e del merchandising: la maglietta più bella del Primavera recita “Shellac and 249 more bands”.
Nick Cave e Björk di fila
In un’overdose di sublime, la timetable del Primavera quest’anno ha messo di fila uno dopo l’altro gli spettacoli di Björk e Nick Cave con i suoi Bad Seeds, nella sera di giovedì 31 Maggio. È conclamato che i due siano alcuni degli spettacoli più desiderati della Terra, con fan disposti a spendere più di 100 Euro per la cantante islandese nella sua prossima data romana e fan donne disposte a lanciare direttamente l’utero (a giudicare dalla folla impazzita durante il concerto) a Nick Cave, dal momento che questo personaggio viene osannato, giustamente, al pari di un leader religioso. La prima, mascherata e accompagnata da un ensemble di folletti armati di flauto traverso, ha suonato soprattutto pezzi dall’ultimo album “Utopia”, con dei visual imponenti a tema natura ed ecologia in un tripudio di fiori che sbocciano e altre amenità psicotrope, e ha messo in chiaro il fatto di essere uno degli artisti con l’idea più chiara di come suona la musica del futuro, soprattutto ora che con lei collabora (e si sente) quel genio di Arca. Obbligatorio cercare su YouTube l’inizio del concerto con il suo messaggio di speranza per l’umanità proiettato sullo schermo e a seguire Arisen My Senses. Il secondo si lancia anima e corpo in uno degli show a cui ci ha abituato negli anni, con un’energia da ventenne, con la differenza che per l’occasione ha scongelato dal 1999 Loverman e Come Into My Sleep, che non suonava live dal 2005. Vedere la gente commossa salire sul palco per l’orgia collettiva e la benedizione da parte di Cave a fine live è sempre uno spettacolo nello spettacolo, e stupisce che dopo un simile concerto Mattarella abbia chiamato Conte al posto di Cave, ma evidentemente era a vedere Fever Ray dall’altra parte. Due live che, visti di fila, procurano lo stesso effetto di leggere velocemente “Guerra e Pace” ed “Eneide” in una settimana: tanto confusi, più arricchiti, parecchio felici.
Una piaga sociale chiamata F.O.M.O.
L’angoscia non viene vissuta solo da coloro che dall’estero guardano sullo schermo dello smartphone i propri amici divertirsi al Primavera, ma anche dagli avventori del Primavera stessi, a causa della piaga sociale chiamata con l’acronimo F.O.M.O., ovvero “fear of missing out”, la paura di essere esclusi da un evento o contesto sociale, che porta a preoccupazione compulsiva e crolli nervosi. Quale posto migliore per essere assaliti da tale patologia che un festival con più di duecento concerti compressi in tre giorni su una decina di palchi distribuiti in un’area immensa? I clash (coincidenze d’orario di due o più concerti) di quest’anno sono stati parecchi e difficoltosi, e così chi ha visto gli Arctic Monkeys non ha visto Oneohtrix Point Never che suona per la prima volta in assoluto il nuovo album “Age Of”, a quanto pare imperdibile, chi ha visto i The National non ha visto i Mogwai, chi ha visto i The War On Drugs non ha visto Kelela, Thundercat era insieme alle Ibeyi e i The Internet con gli Idles, Panda Bear e il dj set di Mike D dei Beastie Boys, e salvo rare eccezioni ha pensato di aver fatto in ogni caso la scelta sbagliata. L’ansia portata da queste scelte cruciali (“Chi potrò vedere in Italia? Ho forza nei piedi per fare due chilometri da un palco all’altro? Si nota di più se vengo o non vengo? Dove cazzo saranno finiti i miei amici?”), con relativa ansia e voglia di comprare su Amazon Prime un jetpack per gli spostamenti, è amplificata dai gruppi Facebook legati al festival (per l’Italia: Primavera Sound Italia, con più di 3000 iscritti) in cui si gioca a suon di post e foto in tempo reale a chi ha visto lo show più clamoroso e ricercato, alla faccia degli altri (stronzi) che erano dall’altra parte del Fòrum a vedere quegli sfigati di (inserire nome di band a caso). Tocca mettersi l’anima in pace per vivere sereni, non si può umanamente vedere tutto, così come non si può far tutto nella vita quando ci si trova davanti a un bivio. Il Primavera, d’altronde, è già stato descritto efficacemente da John Lennon: è quello che ti capita di vedere girando a caso mentre sei impegnato a farti un piano dei concerti sulla timetable.