Quante marchette post-mortem han fatto tutti a Jimi Hendrix dal funesto giorno della sua dipartita da queste spoglie lande umane? Tante e tante e di più. Celeberrima e celebratissima, la sua figura fa ormai parte dello scibile umano e si trasmette ai nuovi nascituri imprimendosi direttamente nelle eliche del DNA. Insomma, tutti-sanno-chi-è-il-lisergico-Jimi. Ma, l’angoscioso contraltare per le immortali rockstar come Lui è rappresentato dalla proliferazione di cover band che ne vilipendono sistematicamente la memoria. Quante merdacce abbiamo visto salire sui palchi dei locali di mezzo mondo e provincia, disinteressate alla difesa di un briciolo di dignità personale e dedite all’oltraggio a mano libera della Storia, che suonano una “Hey Joe” con il culo e una “Red House” da non farti desiderare altro che raggiungere un altissimo ponte da cui gettarti? Troppe, di più, superano di gran lunga le marchette.
Per questo l’evento di stasera al Blue Note è un’occasione per ri-nobilitare il repertorio hendrixiano, per eliminare quella patina di disgusto che solo i Classici hanno addosso, vittime di rapporti non protetti con l’idiozia e la pochezza intellettuale dei tanti-che-suonano (fondamentalmente distinti dai Musicisti), quando non soggetti a veri e propri stupri multipli. Insomma, stasera gli spartiti del cespuglio tricologico più importante del Roccherrolle sono tra le pregevoli mani dei Quintorigo.
Ohmmioddio, i Quintorigo? Quelli di Rospo e Bentivoglio Angelina? Quelli con quegli strani strumenti con gli archetti? Sono ancora vivi? Oh sì, miei cari. Fuoriusciti John DeLeo prima (peccato, piango) e Luisa Cottifogli poi, il quartetto romagnolo s’è allontanato dai riflettori della povera scena italiota, mettendo in atto una precisa scelta artistica, se non di vita: Non Sputtaniamoci Suonando Cagate Per i Timpani della Massa Coprofaga. Facciamo Roba Seria, si saranno detti. E ciò hanno fatto. Prima un coraggioso e riuscito tributo a Charles Mingus (“Quintorigo Play Mingus”, 2009), poi l’arrivo di un nuovo cantante (Luca Sapio) e la conseguente pubblicazione di un album di inediti (“English Garden”, 2011: non un granché, in verità), adesso un’altra sfida non da poco: Quintorigo Experience, ovvero un disco e un tour focalizzati sull’interpretazione dei grandi classici di Hendrix. Sarebbe stato troppo facile per i Quintorigo scovare i brani più sconosciuti e riarrangiarli in chiave da quartetto da camera, così da non rischiare l’implacabile giudizio dei seguaci jimieschi. No no, l’impresa è più ardua se si mettono sul tavolo i pezzi più sputtanati, quelli in cui è più facile cadere nell’Ovvio e nel Chedduepalle. Lo sforzo è encomiabile, il risultato eccellente.
La serata è aperta dall’inutilissimo monologo di Enzo Gentile, giornalista musicale con un curriculum della madonna, ma ascrivibile nell’esercito di quelli che ripetono i copioni-già-scritti. Hendrix che rivoluziona il rock. Hendrix che insegna a tutti come si suona la chitarra elettrica contemporanea. Hendrix e la sua carriera fulminea. Hendrix e il ’67. Hendrix è morto. Grazie, lo sapevo già. Il tutto per dieci minuti filati pesanti come dieci pasticche di Rohypnol ingollate tutte insieme. La sua solfa viene man mano ricoperta dal disinteressato chiacchiericcio della sala, oltre che puntellata dalle posate che picchiettano sui piatti di chi sta ancora cenando.
Il buon Gentile va via, accompagnato da un silente ma arcigno sbadiglio di massa e lascia il palco ai Quintorigo. Lo schermo sulla destra s’accende e proietta immagini della guerra in Vietnam e il quartetto intona The Star-Spangled Banner, l’inno americano trasformato da Hendrix in digrignante atto di rivolta rock contro quell’insensato conflitto. Era il Woodstock del ’69.
Lo schermo si spegne e Moris Pradella fa il suo ingresso. E’ lui il vocalist che accompagna il gruppo in questa avventura, uno che sa come far avvampare microfono e animi di chi ascolta. La sua voce, suadente e dal timbro a metà tra il gospel e il soul, rievoca vagamente quella del sommo Jimi, ma ne migliora le melodie con quella dose di tecnica funzionale alla veicolazione emotiva.
Da qui parte il vero e proprio show. Attacca prima una Purple Haze con un climax sontuoso, poi una Manic Depression che non ha l’impeto percussivo conferitogli da Mitch Mitchell, ma è immersa in vellutate tinte jazzy, arricchite dal calibrato uso di effetti del violoncello di Gionata Costa.
La band si riscalda per bene e via ancora con i superclassici. Hey Joe è reinterpretata con cura e perizia ma, è più forte di me, m’interessa troppo poco avendola sentita suonare pure a mia-zia-venuta-dallo-spazio. E’ un peccato che le cover band ti tolgano il piacere di ascoltare certa roba ed è per questo che vanno dichiarate illegali. Sono l’oppio del pop.
Polemiche del cazzo a parte, il caldo – in tutti i sensi – scenario del Blue Note fa da sfondo a una vivida Spanish Castle Magic, la cui energia primordiale è assorbita dall’eleganza del violino e dalla svisature folli del sassofono di Valentino Bianchi. Che è colui che, durante la serata, intrattiene il pubblico con dei sagaci (e un po’ impacciati) intermezzi parlati. Proprio Bianchi pare quello più in palla di tutti, il metallaro della combriccola, quello che fa sempre casino e tira le palluzze di carta dall’ultimo banco in una classe di secchioni.
I Quintorigo procedono spediti e tocca a Red House farsi ritoccare dal wah-wah furibondo del violoncello e dai funambolici assoli di sax. Procedono spediti, sì, ma poi incappano in una parte centrale di concerto a mio avviso soporifera. Dapprima una Angel non entusiasmante che sfuma però in un interessate sciame di dissonanze. C’è spazio per un superfluo intermezzo solitario per il violino di Andrea Costa, prima che Voodoo Chile infiammi la platea come un peperoncino calabrese nella tazza di latte al mattino. Poi il solo Stefano Ricci al contrabbasso consegna una Little Wing che è invero una noia da far stramazzare esausto al suolo perfino il forzuto e leggendario Ercole.
Inizio a sospettare che il concerto stia prendendo una pessima piega e un vago senso di paranoia e prurito comincia a insinuarsi nella mia microscopica persona. Va un po’ meglio con lo swing di Up From The Skies (la visionaria versione originale si presta facilmente a una simile rivisitazione) e la strumentale Third Stone From The Sun.
Ricci annuncia un altro importante ospite, lo schermo si riaccende e compare lui, Hendrix con la sua band e i Quintorigo, un po’ paraculescamente, suonano assieme alla registrazione audiovideo una The Wind Cries Mary che non aggiunge nulla alla faccenda. Lo stesso Ricci si profonde poi nel suo momento di gloria solitaria con un assolo di sax costruito su piani di loop registrati all’istante.
Ho un vago senso di sconforto, lo ammetto. L’entusiasmo dei brani iniziali sta lentamente precipitando in picchiata. Ma, alt, c’è sempre un “ma” che smentisce il buon Giarratana lamentoso. Sta per arrivare un triplete che gli interisti neanche se lo sognano.
Foxy Lady! Fire! Gypsy Eyes! Porca puttana! dico. Seriamente, il Blue Note sta per venire giù, la band tira fuori una potenza bestiale se relazionata agli strumenti che si ritrova in mano. Groove a secchielli, violoncello e violino sparano riff serrati, il sax volteggia imprevedibile come un falco di fuoco, Pradella è impeccabile con i suoi glissati e i saliscendi vocali. Peccato solo che due stronzi accanto a me e i cari colleghi in mia compagnia decidano di deturpare questo idilliaco momento pestando i loro calici di birra vuoti sul piano del tavolo, nel nefasto tentativo di tenere il tempo. Non ho bestemmiato loro in faccia per decenza, ma se avessi avuto un kalashnikov… ah, se avessi avuto un kalashnikov! Lo avrei usato, perché non paghi di avermi lesionato lo scroto con quel pestaggio inverecondo, per la Crosstown Traffic che fa da encore alla performance, i due ci danno dentro ancora più scombussolati di prima. Che qualcuno li interdica dalla frequentazione di concerti di questo tipo in futuro, far casino in un live del genere è come pogare all’Angelus quando i Papaboys starnazzano “Hosannah, eh, Hosannah, eh, Hosannah Cristo Signor!”. Però “Crosstown Traffic” è eseguita in maniera esemplare, lo affermo per puro diritto di cronaca.
A parte la sezione centrale del set che mi ha parecchio annoiato e i bifolchi percussivi sbucati alla fine, i Quintorigo vincono questa sfida lanciata a se stessi e al pubblico. E’ nei brani più energici e sudoripari che, paradossalmente, il quartetto sguinzaglia una forza e un impeto inattesi e da il meglio di sè, dimostrando ancora una volta l’impressionante bagaglio tecnico a disposizione, oltre a un’attitudine da veri rockers. Come degli alchimisti, i Quintorigo trasmutano la rozza furia del rock in raffinato e scintillante oro sonoro e ci ricordano che, purtroppo, l’era delle Rockstar, quelle autentiche, è tristemente finita. Amen.
SETLIST: The Star-Spangled Banner – Purple Haze – Manic Depression – Hey Joe – Spanish Castle Magic – Red House – Angel – Voodoo Chile – Little Wing – Third Stone Fron The Sun – The Wind Cries Mary – Foxy Lady – Fire – Gypsy Eyes —encore— Crosstown Traffic