Un concerto lungo (quasi) tre mesi, quello dei Radiohead a Roma, per la loro prima vera volta nella Capitale nonostante i 20 anni abbondanti di carriera. Un concerto che doveva tenersi il 30 Giugno e che sembrava non voler arrivare mai, fra voli aerei buttati al vento e biglietti prima in vendita e poi trattenuti gelosamente a un passo dalla cessione. E, sinceramente, per questa loro prima volta Thom Yorke e soci – nonché il pubblico, data la sessantina di euro a cranio sborsata – meritavano qualcosa di meglio dell’Ippodromo delle Capannelle.
Prima di cominciare a parlare di musica, di ciò che c’interessa veramente, crediamo giusto ed opportuno spendere qualche parola sulla oltremodo deludente organizzazione della serata: come si fa a portare 25 mila persone in una location non servita da mezzi pubblici a sufficienza se non un autobus ogni paio d’ore? Come si fa a non predisporre parcheggi congrui per le auto di chi, in qualche modo, doveva pur recarsi all’Ippodromo? Come si fa a far suonare la miglior band del pianeta terra in uno slargo polveroso e dispersivo, senza alcuna possibilità di creare una massa compatta davanti al palco? Morale della favola: totale impossibilità di raggiungere la location senza prima sorbirsi 3 ore buone di coda, auto e motorini in ogni pertugio possibile e immaginabile (molti si sono dati al parcheggio, per così dire, creativo), ingresso all’ultimo minuto utile, posizionamento a decine e decine di metri dal palco in qualsiasi direzione e malumore serpeggiante. Che le responsabilità siano del Comune di Roma, del Rock In Roma o dello spread poco importa, resta un’indecenza che solo in Italia poteva accadere. C’è davvero molta strada da fare nel nostro Paese in quanto a organizzazione di eventi di una certa portata (e anche così ci si spiega l’assenza in Italia di un festival degno di tale nome, ai livelli di ciò che anima il resto d’Europa).
Messa da parte l’amarezza per il pre-evento, veniamo adesso direttamente ai Radiohead, dato che i Caribou – apripista della serata – li perdiamo in toto per i motivi di cui poco sopra. Alle 21.30 bollate la band di Oxford sale sul palco, ottima struttura sotto tutti i punti di vista (sarebbe stato il colmo avere anche un impianto deficitario), con gli ormai classici monitor a riprendere e mostrare al pubblico ciò che accade sul palco. L’inizio, come spesso è accaduto durante l’ultimo tour, è affidato a Lotus Flower. Un Thom Yorke insolitamente loquace comincia da subito ad interagire con la platea, cosa che farà per tutta la durata del concerto. Ed è ancora “The King Of Limbs” con Bloom. Si sapeva che i Radiohead avrebbero dato molto spazio alle loro ultime pubblicazioni, tanto che i due brani a seguire sono 15 Step e una Weird Fishes / Arpeggi da brividi, entrambe prese da “In Rainbows”. Un salto a “Kid A” con l’omonima traccia e di nuovo all’ultimo album con Morning Mr. Magpie. La voce di Yorke a tratti è filtrata da alcuni effetti che nelle versioni in studio dei brani non compaiono, ma nel complesso le esecuzioni risultano di una perfezione unica. E quando l’inconfondibile attacco di There There prende vita al buio è l’apoteosi.
I monitor piazzati a copertura del palco trasmettono immagini che danno tutta l’impressione di essere qr code, altro segno dell’irriducibile passione della band per tutte le novità in fatto di tecnologia. The Gloaming e Separator anticipano un altro momento top della serata: Pyramid Song. Ascoltare estratti da “Kid A” e “Amnesiac” dal vivo è in assoluto una delle esperienze auditive più appaganti in circolazione. Dopo un’ipnotica Nude, Yorke presenta “una nuova canzone, o quasi”: si tratta di Staircase, contenuta nel live “From The Basement”, e neanche a dirlo il pezzo sembra avere per il pubblico ben poco di nuovo. I Might Be Wrong precede poi una “very old song”, così come lanciata dallo stesso frontman della band: effettivamente il salto nel passato è consistente, si torna al 1995, si torna a “The Bends”, è la volta di Planet Telex. La conclusione della prima tranche di live prima degli encore di rito è affidata a Feral e all’immancabile Idioteque: Yorke è “ballerino” come spesso gli accade negli ultimi anni, ma la freddezza post-apocalittica del pezzo ghiaccia il sangue nonostante le danze e i beat elettronici.
Al ritorno on stage i riflettori illuminano Thom Yorke al centro del palco, chitarra acustica fra le braccia e voce flebile: Exit Music (For A Film), esecuzione a dir poco emozionante di un brano epocale. Il battimani del pubblico accompagna fin dalle prime note House Of Cards, la “love song” presentata da un Yorke che ne ha anche per Berlusconi: The Daily Mail, altra traccia da “From The Basement”, è tutta per lui. La chiusura del primo bis vede Myxomatosis e l’altro classico Paranoid Android, da quello spartiacque della carriera dei Radiohead che fu “Ok Computer”. Yorke incita il pubblico con un “andiamo!” e giù di nuovo dal palco. Ancora tre pezzi per questa data romana degli inglesi, la prima del loro mini-tour italiano: Give Up The Ghost, a completare il quadro da “The King Of Limbs”, poi Reckoner (fra le più applaudite) e infine un’accelerata Everything In Its Right Place, che apre “Kid A” e chiude il concerto dopo 2 ore e 10 minuti dal suo inizio. I Radiohead si confermano, se mai ci fosse stato bisogno di una conferma, la miglior band al mondo, per quel loro non cullarsi mai sugli allori, per l’atavica voglia di superare se stessi e le aspettative nei loro confronti e, soprattutto, per performance dal vivo – come questa tappa romana – assolutamente sopra la media emozionale e qualitativa di qualsiasi altra formazione contemporanea. Bisognava esserci, anche dopo un rinvio di tre mesi, anche dopo 3 ore di coda, anche con l’automobile piazzata sui rami di un albero.
SETLIST: Lotus Flower – Bloom – 15 Step – Weird Fishes /Arpeggi – Kid A – Morning Mr. Magpie – There There – The Gloaming – Separator – Pyramid Song – Nude – Staircase – I Might Be Wrong – Planet Telex – Feral – Idioteque —encore— Exit Music (For A Film) – House Of Cards – The Daily Mail – Myxomatosis – Paranoid Android —encore 2— Give Up The Ghost – Reckoner – Everything In Its Right Place
A cura di Emanuele Brunetto