Da giorni impazza in rete la diatriba relativa all’I-Days, tra polemiche (di utenza e addetti ai lavori), passi falsi (dell’organizzazione) e trollate varie ed eventuali. Noi finora non ci siamo mai espressi, abbiamo atteso di vivere in prima persona il contesto piuttosto che saltare a conclusioni affrettate. E l’occasione c’è stata fornita dalla seconda data in Italia dei Radiohead, che arriva dopo la fantastica scaletta e i commenti entusiasti di Firenze. Prima di parlare dei Radiohead, però, è assolutamente doveroso e necessario discutere un attimo del contorno, affatto irrilevante per eventi di tale dimensione e partecipazione.
Si dice spesso come in Italia non si abbia la cultura del festival, come l’utenza non sia abituata a certi contesti, etc. Tutto vero, almeno in parte, ma non è che promoter e organizzatori siano degli illuminati, tutt’altro. L’I-Days – che, giusto per la cronaca, non è neanche lontano parente di un festival, vista ad esempio la mancanza di un abbonamento complessivo per i quattro giorni – è una roba da tramandare ai posteri come esempio da non seguire: la location in sé, sebbene suggestiva immersa com’è nel verde del Parco di Monza, ha dei limiti logistici mastodontici che solo un cieco non vedrebbe e che sono stati deliberatamente non considerati. Uno su tutti la sfiancante scarpinata da affrontare prima di giungere fronte palco, tanti, troppi, davvero troppi km a piedi, per gran parte su sterrato, con la quasi totale assenza di indicazioni e al ritorno anche al buio per gran parte del percorso. Per fare la mezza maratona ci si iscrive alla Stramilano, non si sceglie l’I-Days.
Poi i parcheggi, con prezzi che definire proibitivi è poco e distanze inversamente proporzionali al prezzo. Oppure le navette, poche e male organizzate, con scene di panico nelle centinaia di metri di coda per salirci sopra. Infine i mitologici token… vi spieghiamo come funzionano: all’interno non puoi pagare nulla in contanti o con carta, devi acquistare queste fiches del valore di 3 Euro l’una. Va bene, anche allo Sziget e altrove in giro per l’Europa bisogna fare la card ricaricabile. Sì, ma qui devi acquistarne un minimo di 5, ovvero 15 Euro. E se hai bisogno solo di un’acqua minerale, ne hai proprio bisogno perché dopo 4/5 ore sotto il sole rischi il mancamento, e ti serve solo mezzo token? Gli altri quattro e mezzo te li ficchi su per il… portafogli, perché non esiste un reso e soprattutto non puoi spenderli il giorno dopo, hanno colori diversi per ciascuna giornata.
Sorvoliamo totalmente, infine, sull’estemporanea comparsa/scomparsa di magliette speciali, braccialetti e quant’altro consenta varchi e postazioni privilegiate, visto che il minimo sindacale della correttezza vorrebbe che le regole d’accesso fossero ben delineate e chiare fin dal lancio della vendita dei biglietti. Insomma, a voler credere nella buona fede siamo al cospetto di dilettanti allo sbaraglio, mentre a pensar male vengono in testa tutta una serie di considerazioni che preferiamo non trascrivere e lasciamo alla vostra immaginazione (che non dev’essere neanche troppo fervida per arrivare alle nostre stesse conclusioni).
Adesso facciamo un bel respiro e parliamo di musica.
Le prime due band in line-up, Santa Margaret ed Ex-Otago, le perdiamo, arriviamo all’area concerto con Michael Kiwanuka che sta per salire sul palco. Il suo ultimo “Love & Hate” dello scorso anno è un disco meraviglioso che avevamo davvero voglia di sentire dal vivo. Lui ce la mette tutta per attirare l’attenzione di un pubblico distratto dalla lotta per la sopravvivenza, inanellando una serie di pezzi fantastici: Cold Little Heart, Black Man In A White World, finendo col singolo One More Night. Peccato averne goduto in un contesto un po’ dispersivo come quello dell’I-Days. Tempo del cambio palco ed è la volta di James Blake: l’inglese è perfetto, con i suoi beat regala una ventata di ghiaccio all’assolata platea, eseguendo anche Limit To Your Love e The Wilhelm Scream, che come sempre da sole valgono il prezzo del biglietto e ne fanno un’apertura perfetta per una band come quella di Thom Yorke e soci.
E veniamo a loro: il tribunale di Internet spesso e volentieri bolla i Radiohead come una band di sopravvalutati. Ecco, al di là del gusto personale e delle prese di posizione motivate, chi asserisce ciò probabilmente non ha mai visto all’opera quei cinque signori. Salgono sul palco persino con qualche minuto di anticipo sul programma e danno il via con Daydreaming a una maratona emotiva (questa sì scelta e voluta) con pochi eguali. La setlist la trovate qui in basso, inutile ripercorrerla passo dopo passo e stare qui a dirvi come ogni brano sia stato perfetto, preferiamo soffermarci sui momenti cruciali del live: Airbag, primo estratto dal festeggiato “OK Computer”, che è come rivedersi dopo anni con un compagno delle scuole medie, l’accoppiata Pyramid Song / Everthing In Its Right Place e quella finale con Exit Music (For A Film) e Paranoid Android.
Yorke non è più schivo come in passato, parla e parla tanto col pubblico nel suo italiano maccheronico rafforzato dalle sue recenti vicende sentimentali, balla sghembo come consuetudine su Idioteque, imbraccia un synth wireless e lo culla a mo’ di pargolo, alterna chitarra a maracas e sfoggia una performance da vero anfitrione.
Il set principale si chiude e allora la speranza del pubblico è che almeno un paio dei pezzoni regalati alla platea fiorentina possano essere riproposti anche a Monza. I Radiohead fanno di più, molto di più: al rientro sul palco c’è la nenia No Surprises, poi una commovente Nude, 2 + 2 = 5, Bodysnatchers e infine un colpo basso che più basso non si può: Yorke imbraccia l’acustica e inizia da solo, a centro palco, Fake Plastic Trees; uno a uno si aggiungono anche gli altri, per un brano che a distanza di più di vent’anni graffia l’anima allo stesso identico modo.
Si potrebbe già andare tutti a casa soddisfatti, ma è il secondo encore a imprimere il definitivo sigillo a una prestazione superlativa: dopo Lotus Flower, che si conferma uno dei momenti apparentemente più coinvolgenti per Yorke, il frontman dei Radiohead incita il pubblico con un “ne volete ancora?!?” ed ecco le prime note di Creep. Il brano, vecchio tanto da sembrare appartenere a un’altra band, è uno di quelli tanto abusato, tanto finito su cassette e compilation da apparire quasi banale. Ma gli oltre 50 mila presenti lo cantano all’unisono, Jonny Greenwood violenta la chitarra con le sue rasoiate, Yorke snocciola un’interpretazione matura che regala nuova linfa a quelle parole generazionali.
Ma non è ancora finita: da un bel po’ di setlist i Radiohead non proponevano Creep, men che meno accoppiata all’altro classico del loro repertorio, ovvero Karma Police. A Monza c’è anche lei a chiudere il cerchio, ancora un sing along collettivo, ancora emozioni a fior di pelle per celebrare al meglio i vent’anni di “OK Computer”. Il pezzo finisce, ma i Radiohead non lasciano subito il palco: Yorke suona ancora qualche nota in acustico, il pubblico canta il ritornello del brano e ci si saluta così, con la miglior esibizione e la miglior setlist che ci si potesse augurare.
La miglior band del mondo? Sì, con poco margine d’errore, per mille e uno motivi che è più facile vivere che spiegare, compreso quello non secondario di riuscire ad alleggerire con due ore da brividi la pesantezza di condizioni altrimenti davvero insopportabili.
SETLIST: Daydreaming – Desert Island Disk – Ful Stop – Airbag – 15 Step – Myxomatosis – The National Anthem – All I Need – Pyramid Song – Everything In Its Right Place – Reckoner – Bloom – Weird Fishes/Arpeggi – Idioteque – The Numbers – Exit Music (For A Film) – Paranoid Android —ENCORE— No Surprises – Nude – 2 + 2 = 5 – Bodysnatchers – Fake Plastic Trees —ENCORE 2— Lotus Flower – Creep – Karma Police