Immaginate che vostra zia Melina (o Lella, o Ambrogina, insomma scegliete il nome geograficamente più appropriato), quella estremamente religiosa, che va a messa più volte alla settimana e tiene la TV accesa su Tele Padre Pio quasi tutto il giorno, venga invitata nella meravigliosa cornice del Teatro Antico di Taormina, un posto mozzafiato risalente al III Secolo A.C., e che questo invito sia per vedere Gesù Cristo. Ed eccolo lì, magari un po’ anziano ma sempre in perfetta forma, capelli bianchi ma sempre lui, Cristo, che davanti ai suoi occhi moltiplica pani e pesci, e fa il “Padre Nostro” in diretta. Accenna persino “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Alla zia Melina scoppierebbe di gioia il cuore, un po’ come è scoppiato alle migliaia lì a vedere quello che, a tutti gli effetti, conta quanto un messia, una divinità in terra; non che la cosa gli faccia particolarmente piacere, anzi.
Robert Plant entra insieme alla fenomenale Suzi Dian, che per tutto il concerto sarà – come dice lei stessa nelle rituali presentazioni della band – la sua partner in crime, e la loro simultanea entrata ha forse il significato della modestia non simulata del Golden God, che alla Dian offre pari spazio vocale sul palco. La performance è ottima e la setlist peculiare: Plant, che scherza e gioca col pubblico per l’intera durata del concerto, è in perfetta forma vocale, assodato che l’estensione non poteva essere la stessa di “Physical Graffiti” neanche negli anni ’80, figurarsi a 75 anni, pur splendidamente portati.
Il progetto, che include oltre Suzi Dian alla voce, basso e fisarmonica, i chitarristi Matt Worley e Tony Kelsey e il batterista Oli Jefferson, include diversi pezzi tradizionali (tra i quali spicca la combo che apre il concerto Gospel Plow e The Cuckoo), qualche pezzo di Plant solista (Let The Four Winds Blow, da “Mighty ReArranger”), diverse cover di artisti amati (It’s A Beautiful Day Today dei Moby Grape è tra gli highlight del concerto, così come Chevrolet di Donovan e un’esplosiva Angel Dance dei sempre troppo sottovalutati Los Lobos) e, naturalmente, quello che tutti aspettavano: i pezzi dei Led Zeppelin, nome che campeggiava fiero su centinaia di magliette di spettatori giovani e meno giovani. Come accaduto nel resto del tour le prescelte sono Friends (da “Led Zeppelin III”, perfettamente adeguato al suono dei Saving Grace), che fa esplodere il teatro, una versione riarrangiata di The Rain Song, che sostituisce il mellotron di John Paul Jones con la fisarmonica della Dian, Four Sticks e Gallows Pole, con qualche breve citazione di Black Dog e In My Time Of Dying.
Ma non è un’operazione nostalgia, anzi. I pezzi zeppeliniani sono completamente riarrangiati per adeguarsi al suono della bravissima band e risultano perfettamente integrati nella setlist. Plant concede diversi momenti alla sua band, incluso uno in cui svolge un mero ruolo da corista, come accade ad esempio in Out in The Woods di Leon Russell, nella quale è Matt Worley a cantare. Conclude la serata straordinaria una versione a cappella di And We Bid You Goodnight (pezzo tradizionale cantato spesso dai Grateful Dead), nella quale tutta la band canta in un singolo microfono. Plant saluta e ringrazia e riprende una battuta fatta in precedenza col tipico umorismo inglese (“If the Los Lobos knew we were singing their song they’ll be as miserable as we are”) per concludere la serata: “There was absolutely nothing miserable about this”. In attesa e nella speranza di un album dei Saving Grace, non possiamo che concordare.