Di questi tempi − ormai da un bel po’ di tempo a dirla tutta − risulta quasi inutile ascoltare un disco se l’obiettivo è quello di rendersi conto di quanto una giovane band sappia il fatto suo. Perché in studio ormai si fa di tutto, si sistema tutto, si rende fruibile anche un rutto e lo si fa suonare esattamente come si vorrebbe suonasse, a prescindere dal reale valore di chi ci sta mettendo la faccia. Va da sé, quindi, che l’unico modo per farsi un’idea precisa è il live, vedere la band all’opera su un palco, a contatto con la gente. Questo per dire − ma immaginiamo si fosse intuito dal preambolo − che gli inglesi Shame su disco convincono, sì, senza dubbio, ma fino a un certo punto. Cosa gli manca, lì nelle loro incisioni? Forse un po’ di ruvidità, giusto per rimanere sul generico ché qui stiamo a parlare d’altro.
Avrete capito anche che, invece, Charlie Steen e i suoi dal vivo sono una vera bomba ad orologeria, che ci sta giusto una manciata di secondi di Alibis per esplodere e radere al suolo le prime file del Circolo Magnolia. Steen è letteralmente indiavolato, gli occhi spiritati di chi vuole mangiarsi il palco, il pubblico, i suoi compagni di band e pure il bancone del bar. Sul palco ci sta lo stretto indispensabile, perché per il resto è giù, poi su sull’impalcatura delle luci, appollaiato come un corvo che gracchia un bel po’ di rabbia e improperi, poi letteralmente sulle teste della gente: lo mantengono prima del tutto in piedi, poi in stage diving, mentre lui trema come un forsennato senza smettere mai di urlare al microfono. Sì, non è da questi numeri circensi che si capisce chissà cosa, ma il contatto, il modo in cui questo contatto avviene, il volto stesso di Steen, dicono più di mille parole.
La setlist è veloce, velocissima, supersonica, in un’ora e un quarto i cinque di South London tirano fuori dal cilindro un bel po’ dei famelici conigli contenuti in “Food For Worms”, il loro ultimo (nonché terzo) lavoro in studio uscito giusto un mese fa, dall’iniziale Alibis ai singoli Fingers Of Steel e Six-Pack, fino ad Aderrall che è uno strappo violentissimo. Nel mezzo Steen ringrazia ripetutamente il pubblico milanese (prima volta per loro nel capoluogo lombardo) con il suo italiano biascicato, mentre praticamente senza soluzione di continuità vanno in scena Concrete e poi l’elettrica Born In Luton, One Rizla che è la quota indie rock di casa Shame e poi All The People, il cadenzato finale del nuovo album. Fino a quella Gold Hole che infiammava più del resto il loro debutto del 2018, “Songs Of Praise”, e che chiude il set devastante degli Shame.
Come dicevamo, è sul palco che va vista e valutata una band, specie se così giovane e così carnale. E gli Shame di rabbia ne hanno da vendere, di attitudine neanche a dirlo, e che lo si voglia chiamare indie rock o pane e marmellata, che li si voglia affogare nel calderone post punk che oggi va (fortunatamente) per la maggiore o meno, questa è una band che ha tutte le carte in regola per restare e continuare a raccontarci un po’ cosa accade al di là della Manica, dal privilegiato punto di vista di cinque teppistelli che non guardano in faccia a nessuno.