18 ANNI PRIMA
A casa dei suoi Nico aveva una stanza stretta e lunga, in una parete teneva gli scaffali con i CD, nell’altra un letto da adolescente e poi uno stereo. Quel pomeriggio gli dissi di aspettarmi per ascoltare “Machina/The Machines Of God”. Era uscito da qualche giorno. Fu di parola, mi aspettò. Lo ascoltammo prima dei compiti che poi non facemmo mai perché il disco lo rimettemmo da capo dieci volte. Ai tempi Nico era il più pigro di tutti noi, oggi entra in studio alle 8:00 e stacca a sera. Per Milano da Catania prendemmo il primo aereo della nostra vita. Era il 2000, eravamo in cinque. Sapevamo che quello al Palavobis (29 Settembre) sarebbe stato l’ultimo live dei Pumpkins e facemmo il diavolo a quattro per esserci. I Pumpkins erano finiti, lo avevano fatto intuire loro stessi. Fratture personali insanabili. Casini, un’epoca che terminava, un’ispirazione al capolinea. Una “zucca spappolata” praticamente. Billy Corgan, ormai troppo lontano dagli altri, insoddisfatto di quella prigione chiamata band. Bresmes (non un soprannome, ma un cognome) comprò una locandina dello show, c’era disegnata una coppa battesimale e qualcos’altro di vagamente mistico. Diceva di temerla quella locandina quasi per ragioni scaramantiche, oggi insegna filosofia e certe inquietudini ha imparato ad ammansirle. Diciotto anni fa fu un concerto bianco e nero: o dolcissimo o scurissimo. Billy vestì di chiaro per il set acustico e di pelle per la parte arrabbiata. Si respirava una strana atmosfera. Forse era l’anno spartiacque, il 2000, forse i nostri anni spartiacque, i 18 anni. Ci vestimmo di nero, avevamo volti pallidi. Manu lo diceva sempre: “Milano è l’unica città dove vivrei non fosse Catania”. Oggi sta a Milano e forse la frase la ribalterebbe al contrario perché, quello di casa, alla fine, è (quasi) sempre un concetto relativo. Si cambia. Sì, si cambia. I Pumpkins pensarono di darcela a bere che il cambio al basso con Melissa Auf der Maur al posto di D’Arcy Wretzky fosse segno di rinascita, e invece si preparavano a vivere una vita uno lontano dall’altro. E anche Billy, mentre sputava Heavy Metal Machine aveva già passato lo stargate. La sua era un’aggressività che non gli apparteneva: nel barattolo Pumpkins l’aggressività ha sempre trovato mescola con la nostalgia. Vittorio ai tempi scriveva poesie, oggi si è fatto crescere una barba folta: una specie di protezione. Come dargli torto? Chi può permettersi oggi di lasciarsi andare al languore del rock alternativo? Diciotto anni fa tutti i nostri eroi avevano la nostra età di adesso e ci parevano tutti forniti di spada. Billy, a ogni acuto, cambiava le sorti della musica americana e le partiture di James Iha erano studiate dagli adolescenti, quelli che a scuola venivano con la chitarra a tracolla dicendo alla prof che di pomeriggio avrebbero avuto lezioni di musica. Vestivano jeans strappati al ginocchio e si scambiavano cd masterizzati. E poi c’ero anche io a Milano nel 2000. Neanche mi ricordo chi mi prestò i soldi per arrivare fino a lì dalla Sicilia. Però ho bene alla mente che nei giorni precedenti non smettevo di battere coi denti il motivo batteristico di Cherub Rock, una specie di tic, una cosa stupida, si sentivano i miei denti a distanza. Quando Jimmy Chamberlin partì con i rulli a Milano. Io lo seguii quasi a farmi male. Oggi non lo faccio più per nessun gruppo (intendo battere i denti per seguire una batteria), oggi cerco di farmi meno male per le cose, in generale.
18 ANNI DOPO
A Bologna molto è cambiato da 18 anni fa. I tassisti guidano spericolati come lo facciamo noi terroni e al palazzetto di Casalecchio (oggi Unipol Arena) non giocano più le formidabili squadre di basket bolognesi perché precipitate in un profondo declino. Si potrebbe stare ore a parlare del rock nell’anno del 2018. Di come certo linguaggio sia sparito come la Seven Up dai supermercati. Non è colpa di nessuno, non è di certo colpa nostra, intendo mia, di Nico, Bresmes, Vittorio e Manu che ci presentiamo al palazzetto in taxi e con diversi chili in più. Le magliette sono le stesse in un misto di romanticismo e patetica autoironia da social. Anche Billy spunta visibilmente invecchiato dall’intercapedine di due enormi schermi, è vestito con abiti eccentrici come da tradizione. Ma stavolta fa una cosa che non ci saremmo aspettati: dà l’addio a se stesso. Quanto l’abbiamo bastonato durante la sua assenza: “Che cavolo fa, è uno sfigato. Come s’è ridotto” (quasi parlassimo di noi). Anche la foto postata su Instagram che lo ritraeva nella mattinata bolognese seduto sulle scalinate della Basilica di San Petronio a Piazza Maggiore, lo mostravano stanco, con un cappellino moscio e un’espressione da “che cavolo ci faccio qui”. E invece no. Si presenta alle 21:00 in punto con una meravigliosa acustica in braccio e, alle spalle, alcune (ancor più meravigliose) immagini del suo passato: lui con i fratellini, lui con la madre, con i suoi amici, nei giochi, nel viaggio più entusiasmante della vita: l’adolescenza. Super 8 rarissimi e da brividi. Billy uccide se stesso, dicevo: “The killer in me, is the killer in you” sembra dire a quel paffuto ragazzino che è stato. Disarm ci scuote come una sberla che non t’aspetti. Ed è uno stargate da cui passano amici vecchi e nuovi: James Iha, Jimmy Chamberlin in primis e poi Jeff Schroeder, Jack Bates, Katie Cole (rispettivamente chitarra, basso e tastiera) per quello che non è solo un concerto degli Smashing Pumpkins ma più realisticamente uno spettacolo di una nuova entità composita e multicolore. Billy abbraccia James come Bowie abbracciava Mick Ronson nel famoso video di “Starman”, un’amicizia tormentata, minata dalla lucida follia di entrambi (e forse dai rispettivi fallimenti). Alle spalle una carrellata di video e illustrazioni rinfrescano il già ispiratissimo immaginario dei Pumpkins così affezionati agli anni ‘30, all’espressionismo tedesco, al sacro profanato di putti, santi, macchine votive che tagliano in due il pubblico. Ah l’immaginario! Che bello poter usare ancora questa parola nel live report di una rock band! Perché i Pumpkins sono sempre stati una luna con un ghigno, angeli ironici, una mongolfiera persa nel blu di un cielo di cartapesta, due gemelline temibili, una bicicletta che scricchiola, un falò d’inverno. La setlist è composta di soli classici, e noi ce la godiamo. Corgan ci invita al canto quando parte con Thirty-Three: “Ho viaggiato qua e là, avanti e indietro, ma negli stessi vecchi rifugi trovo tutt’ora i miei amici”. Io la prendo come una dichiarazione a noi cinque o comunque all’intero pubblico bolognese venuto per stare tra amici ascoltando una band amica. “Billy è brillante!” mi urla Nico, e ha ragione. Si cambia d’abito: ora imbonitore, ora capo circo. La sua faccia è quella di uno scheletro, poi quella di un divo, quindi quella di un jolly stampato su un francobollo. Alle sue spalle scorrono effigi stilizzate che contemplano sempre una donna bionda: prima felice, poi in ginocchio, quindi elegante e vestita da ballerina di charleston, alla fine tetra, trucco sbavato e ieratica come una sfinge. Sono le sue donne, tutte le sue donne, sintetizzate in un’unica iconografia. Sua madre, sua moglie, il sesso femminile, le sirene del successo. Quando va al pianoforte per For Martha, nell’enorme vidiwall la donna bionda è sua madre nelle vesti di una ballerina e lui, William, è conciato da piccolo damerino. Non c’è la tristezza del brano che puntellava la coda di “Adore” però. Ora l’addio è una danza che si conclude forse con un nuovo inizio. Ed è questo che emerge dalla voce di Corgan: avere una nuova opportunità, come l’hanno avuta tutti. Una nuova possibilità, sì, come l’abbiamo avuta noi. Diciotto anni dopo.
LE ZUCCHE SI RICOMPONGONO?
Nel concerto di Bologna a stupire più di tutto, quindi, è la vitalità di Billy: sculetta una versione leggera di Space Oddity di Bowie, indica il pubblico, cambia vestiti come al teatro, diventa condottiero e fomentatore, tiranno e vaudeville. Canta, balla, si diverte, supera il buio. Ironizza sullo zero tagliato cucito alle spalle della sua tunica. E poi trattiene nella voce una commozione intatta. Cadono pianeti, stelle comete, frammenti, ma lui è lì a dondolare insieme a Porcelina Of The Vast Oceans, Mayonaise e alla bella cover di Stairway To Heaven. Anche la rabbia di capolavori come Zero e Bullet With Butterfly Wings, Hummer resta credibile nonostante di Halloween ne siano passati tanti da allora. Cosa sono oggi gli Smashing Pumpkins? Sono un gruppo rock? Difficile rispondere a questa considerazione. E cosa siamo noi che li guardiamo da qua sotto? Siamo un gruppo di amici? Sì, certo. Ma il tempo modifica la fisionomia delle spiagge, figurati cinque trentaseienni con sempre troppa malinconia candeggiata male. C’è sempre stata questa immagine che ho amato di Billy e compagni (ritorno al concetto dell’immaginario): la zucca in frantumi. Dopo Halloween le zucche vengono ridotte in mille pezzi, una cosa che fa divertire da matti i bambini americani. Ecco. E se ora la zucca si ricomponesse pian piano in ogni suo frammento? Cosa succederebbe? Si potrebbe ripartire? E di nuovo sogni siamesi, melancholie, adorazioni, notti dove tutto è possibile, viaggi spettrali e nichilismi spettacolari? Una nuova possibilità verrà concessa agli Smashing Pumpkins? No, se ve lo state chiedendo, non saremo io, Nico, Bresmes, Vittorio e Manu a scoprirlo. Tocca a qualcun altro. Noi abbiamo già dato tanto.
SETLIST: Mellon Collie And The Infinite Sadness – Disarm – Rocket – Siva – Rhinoceros – Space Oddity (David Bowie cover) – Drown – Zero – The Everlasting Gaze – Stand Inside Your Love – Thirty-Three – Eye – Soma – Blew Away – For Martha – To Sheila – Mayonaise – Porcelina Of The Vast Oceans – Landslide (Fleetwood Mac cover, con Amalie Bruun) – Tonight, Tonight – Stairway To Heaven (Led Zeppelin cover) – Cherub Rock – 1979 – Ava Adore – Try, Try, Try – The Beginning Is The End Is The Beginning – Hummer – Today – Bullet With Butterfly Wings – Muzzle —ENCORE— Silvery Sometimes (Ghosts) – Baby Mine (Betty Noyes cover)