Per la tappa milanese di Mark Kozelek l’atmosfera all’Arci Biko ha a dir poco del surreale, e non solo per l’ultima fioca luce del giorno che filtra dalle vetrate a soffitto. In primis perché quando l’ex Red House Painters si presenta sul palco non sono neanche le 20.00, orario piuttosto inconsueto per il nostro Paese, dettato evidentemente da esigenze logistiche dell’artista e comunicato tramite un tam tam mediatico nelle ore subito antecedenti il live. Poi perché, sempre mentre Kozelek dà inizio alla sua esibizione, c’è ancora gente che si ciba del cous cous offerto dal locale, sembra un vernissage più che un concerto: nulla di male, per carità, ma la cosa fa un certo effetto. Ancora, perché il disordine in sala regna sovrano, tanti restano in piedi in fondo al locale, la maggioranza invece si accomoda per terra, invitata a farlo dai gestori: una scelta non troppo lungimirante, considerando il pienone che porterà moltissima gente a dover seguire il concerto proprio davanti il cesso, dato che la fisica impone che un uomo seduto occupi più centimetri quadrati di pavimento di un uomo in piedi (oltre al fatto che l’uomo seduto dopo mezz’ora si ritrova col culo piatto e le gambe addormentate, dando inizio a un fastidiosissimo via vai teso a sgranchire gli arti).
Poco male, perché sul palco non c’è uno qualsiasi bensì un pezzo di storia dell’indipendente americano, qui per proporre i suoi lavori a firma Sun Kil Moon, nello specifico l’ultimissimo “Benji”, pubblicato da poche settimane e già serio candidato al titolo di miglior uscita dell’anno. E sarà proprio il nuovo album il protagonista indiscusso (e atteso) della serata.
Che Kozelek fosse un personaggio sui generis lo si sapeva e anche al Biko ne dà prova durante le due ore in cui intrattiene la platea milanese. Tra una polemica con chi, fra le prime file, lo disturba parlottando e un cenno alla propria recente ossessione per gli accoltellamenti (a suo dire dovuta alla visione della serie tv “True Detective”), fra una battutaccia su Ravenna (tappa precedente del tour italiano, definita una “cazzo di città di campagna”) e un amarcord sul suo pubblico (composto agli esordi da ragazze carine mentre negli ultimi tempi solo da uomini a caccia di autografi su poster e vinili), Kozelek mette in mostra tutte le sue contraddizioni umane prima che artistiche. Ora burbero, ora dotato di un sarcasmo tagliente, di certo mai noioso neanche durante un’accordatura di chitarra che dura più del previsto.
Nel mezzo, le storie che narra con una sensibilità più unica che rara e una semplicità fatta di voce e pochi accordi di acustica che fanno splendere ancor più il songwriting. C’è il ricordo del padre in I Love My Dad, c’è la storia della sua maturazione umana e sentimentale in Dogs, stralci di vita come in I Watched The Film The Song Remains The Same o Carissa, Richard Ramirez Died Today Of Natural Causes e la struggente Micheline, tutte legate a momenti particolari dell’esistenza dell’autore. Tutti brani nuovi, da “Benji”, fatti della stessa dirompente forza espressiva di sempre.
Non c’è spazio per l’ormai mitologico passato coi Red House Painters e forse è giusto così: il quasi cinquantenne Mark Kozelek non è più il portavoce di una band ma un cantautore navigato, che fa del proprio diario quotidiano il miglior strumento possibile, tanto da ritrovarsi quasi provato, a fine concerto, a trascinarsi giù dal palco in cerca di un meritato riposo. E noi con lui.