Sul biglietto di molti, quasi tutti, la data è rimasta quella dell’1 Aprile 2020, per altri ancora è invece il 23 Febbraio 2021. Un triste memorandum di ciò che sarebbe dovuto essere e che non è stato. Mica solo per quanto riguarda i Jesus And Mary Chain, ovviamente, ma per tutto un comparto che ha subito per quasi due anni un azzeramento pressoché totale e che sta provando a riprendersi tra mille difficoltà, rinvii, annullamenti, chiusure, fallimenti e via discorrendo. Per tanti, compreso chi scrive, l’ultima data del tour europeo dei fratelli Reid ha segnato il vero ritorno alla dimensione club, quella che − lo diciamo senza timore di smentite − ti fa godere davvero appieno di ciò che esce dall’impianto.
Per i Jesus And Mary Chain è stato un tour celebrativo, non solo di un’intera carriera (rifattasi sotto nel 2017 con “Damage And Joy”) ma soprattutto di “Darklands”, il loro secondo lavoro in studio datato 1987, riproposto integralmente così com’era successo qualche anno fa anche per l’esordio “Psychocandy” dell’85. E il set viene inaugurato così, con Darklands che testimonia in apertura − tanto di live quanto di disco − come i JAMC dell’87 erano stati una band decisamente meno noise di quella di due anni prima, melodie agrodolci al comando e la chitarra di William Reid più indolente e gommosa, quel compendio che avrebbe fatto proseliti marchiando a fuoco l’intero fenomeno shoegaze.
La band gira decisamente bene a dispetto dei decenni accumulatisi sulle spalle dei due condottieri (non traggano in inganno gli imbolsiti sessantatré anni di William e la sua canuta chioma à la Buzz Osborne, che da lontano sembra quasi lui), brani come i classiconi Happy When It Rains o April Skies pestano ancora che è un piacere, Jim Reid è concentrato esclusivamente sulla sua voce e lo si nota ad ogni passaggio, una formazione rinnovata, ringiovanita e viva che supporta con una certa carnalità d’esecuzione la direzione dei fratelli.
L’interruzione fra “Darklands” e il resto è consistente, quasi come se i JAMC volessero far decantare per un giusto tempo il capolavoro appena eseguito, ma quando risalgono sul palco ce n’è ancora per un bel po’, visto che iniziano a trovare spazio brani estratti abbastanza equamente dal resto della produzione della band, con un occhio particolare a qualche “rarità” come Happy Place o la Kill Surf City con la quale i JAMC lasciano nuovamente la scena, una via apprezzabile per lasciare che l’attenzione dei presenti si soffermi sul disco protagonista del tour e allo stesso tempo rivalutare parti della loro produzione che per forza di cose sono state negli anni meno sotto i riflettori.
C’è ancora un rientro e stavolta l’encore è tutto per “Psychocandy”: ovviamente c’è Just Like Honey, che è un pezzo immortale inciso nella storia a lettere cubitali, e soprattutto Never Understand, col suo annichilente sciame rumoristico che è ancora oggi un manifesto di quel modo peculiare e seminale di intendere melodia e rumore. Le orecchie fischiano giusto un po’, ma si tratta di un sibilo stavolta non fastidioso, un sibilo che vuol dire musica, che vuol dire chitarre che sfrigolano, che vuol dire palchi e condivisione. Un sibilo che speriamo non debba più mancarci.
SETLIST: Darklands – Deep One Perfect Morning – Happy When It Rains – Down On Me – Nine Million Rainy Days – April Skies – Fall – Cherry Came Too – On The Wall – About You —ENCORE— Happy Place – Everything’s Alright When You’re Down – Taste Of Cindy – Drop – God Help Me – Up Too High – I Love Rock ‘n’ Roll – Moe Tucker – Come On – Kill Surf City —ENCORE 2— Just Like Honey – Never Understand