Se in molti lamentano il pessimo momento del rock, la scarsa creatività, il vuoto pneumatico di idee e la mediocrità al potere, non si può dire lo stesso di chi segua i nuovi sviluppi nel jazz: la West Coast Get Down, collettivo di Compton del quale fanno parte Robert Glasper, Kamasi Washington, Thundercat e altri ancora, è difatti solo una delle nuove straordinarie forze creative che ha iniettato una nuova linfa vitale nel jazz (spazzando via la parodistica concezione di jazz che “La La Land” ha portato sul grande schermo, facendo incetta di Oscar), innescando un interesse che forse non si vedeva dai tempi della rivoluzione del be bop.
Nel meraviglioso O2 Empire (un tempo Shepherd’s Bush Empire, prima che le sponsorizzazioni fossero al potere) a Shepherd’s Bush, nell’ovest di Londra, apre la serata lo straordinario talento di Louis Cole, multistrumentista americano già contributore in “Drunk” (qui la nostra recensione), e fa subito capire che non è lì per perdere tempo: un set infernale dove si dimena e si divide tra batteria, tastiera e voce infiamma l’Empire quasi esaurito; l’apporto della vocalist è assai minimale e spesso annegato tra i synth anni ‘80 e l’incedere drum’n’bass della sezione ritmica. Talvolta eccessivamente innamorato del suono di se stesso, Cole comunque sforna una prestazione degna di un headliner, prodigandosi persino in un assolo di batteria di qualche minuto.
La star della serata si fa un po’ attendere, ma quando fa la sua entrata, in pantaloncini e giacchetta di paillette color arcobaleno (che si toglierà ben presto: “Let’s get rid of this shiny shit, ha-ha!”), l’attesa è presto dimenticata: furiose esecuzioni di quasi tutto “Drunk”, spesso allungate in lunghe, complicatissime e velocissime jam dimostrano che non c’è trucco e non c’è inganno, siori, Stephen Bruner è veramente il fenomeno che si dice. E oltre a presentare musica eccelsa, Bruner con il suo atteggiamento totalmente rilassato, gioviale e talvolta persino impacciato, conquista la platea e crea un’atmosfera incredibile: i tre livelli e il parterre a un certo punto ballano come si fosse in un club anziché in una venue – cosa che potrebbe anche essere normale se non fosse per il piccolo dettaglio che qui parliamo di jazz veramente poco ballabile, arricchito da synth, violino elettrico ed una batteria talvolta definibile con un improbabile “jazz metal” (improbabile il termine: il groove, invece, spacca ogni genere di culo a portata sonora).
Thundercat tiene fede alla sua storia musicale che lo vedeva bassista dei Suicidal Tendencies e si esibisce in assoli talvolta al limite del trash (non quello di Lino Banfi, quello della Bay Area in California), bruciando l’amplificatore. Fortunatamente riescono a sostituirlo in pochi minuti e si riparte con un po’ meno furia – per il volume c’è poco da fare, a Thundercat e ai suoi piace scandalosamente alto, il che funziona in maniera eccellente finché non arrivano al culmine di una jam e tutto suona un po’ un bordello. Oltre alle ormai classiche Them Changes, A Fan’s Mail, Tokyo e Drunk, Bruner propone, come fa spesso, anche una versione all’osso di Complexion di Kendrick Lamar, tratta da quel capolavoro che è “To Pimp A Butterfly” nel quale è stato uno dei collaboratori più rilevanti.
L’Empire, gremito, esplode di gioia e cerca di richiamare fuori la band per un bis che tuttavia non viene concesso (che ci siano dietro motivazioni relative al coprifuoco? Probabile), ma la serata rimane un successone, sia musicalmente che come atmosfera.