Il Coronet Theatre è un teatro che esiste da oltre centoquaranta anni ad Elephant & Castle, poco fuori il centro di Londra. È una venue che rischia di scomparire, perché non ha abbastanza soldi per continuare. Nel frattempo, per tutto il tempo che può, continua a ospitare la crème degli artisti alternativi inglesi e d’oltreoceano. Ieri ospitava Ty Segall, che con la sua Freedom Band (Emmett Kelly alla chitarra, Mikal Cronin al basso, Charles Moothart alla batteria e Ben Boye alla tastiera) promuove quello che è forse il miglior album della sua prolifica carriera, l’omonimo uscito quest’anno.
Il Coronet all’impatto si presenta poco attraente, la struttura è una sorta di cubo blu, con la fila per l’ingresso interrotta da un garage. L’interno, un decadente teatro in art déco, è affascinante finché non si nota quanto effettivamente decadente sia (il buio aiuta a non pensarci troppo). Lo staff ci impedisce di prendere posto a sedere al piano di sopra come prevede il biglietto, perché rei di essere arrivati troppo in anticipo (“Nah mate, maybe later, tonight standing only I think”), quindi ci piazziamo davanti al palco dove, dopo poco, il gruppo di apertura incomincia lo spettacolo in una sala ancora semi vuota ma in via di riempimento – vediamo gente seduta al piano di sopra, evidentemente adesso l’orario è più consono.
Ben Edge And The Electric Pencils caricano il pubblico, ma il pubblico non sembra troppo soddisfatto del loro punk misto Oasis (il ritornello di “Extra Curricular” è sostanzialmente il verso di “Supersonic”) e Ben non è aiutato dagli evidenti limiti tecnici dei suoi due compari: il sorridente biondo bassista suona la nota base dei due/tre accordi di ogni canzone e la batterista ha un set con due rullanti e una cassa, e provvede a suonare ogni pezzo in quattro quarti nella stessa identica maniera, tenendo le bacchette come la manicola di un muratore. Dopo qualche “fuck off” e tiepidi applausi, Ben saluta (“Questo è il nostro quarto concerto, siamo solo all’inizio”, dice al microfono, piú minaccioso che apologetico) e lascia il posto ai nostri eroi.
Già dal soundcheck la situazione è completamente delirante: lo staff del Coronet non stacca la musica (un misto di hip hop anni ‘90 e i Right Said Fred) e quindi Ty e soci si ritrovano a settare i volumi con un sottofondo abbastanza rumoroso. La prendono col sorriso, finché Emmett Kelly non fa un gesto (il classico pollice che traccia una linea sul collo) e si comincia: Break A Guitar parte fortissimo ed esalta l’ormai pieno Coronet, fluendo senza sosta nella successiva Freedom. Ma nell’esaltazione complessiva si comincia a capire che qualcosa non va: la potenza di fuoco della band, il soundcheck approssimato a causa della musica di sottofondo e l’acustica del teatro comportano che il mastodontico muro sonoro eretto dalle due chitarre (più il basso distorto di Cronin che fa di fatto da terza chitarra) rimbombi nelle cadenti pareti nel teatro e il risultato è, tristemente, che non si sente un cazzo.
Vani sono i tentativi di decifrare gli intrecci di chitarra seguendo le dita con gli occhi, vano è il tentativo di muoversi in diversi posti all’interno del teatro. Vano, ma soprattutto difficile: la discutibile scelta di limitare l’accesso al piano superiore del teatro comporta che la sala sia piena oltre ogni ragionevole misura di sicurezza. I ragazzi nel pubblico non sembrano preoccuparsi: la band fa un bordello della malora sorretta da un (appena discernibile) beat di batteria e tanto basta per pogare, fare crowdsurfing e in generale passare una serata nel delirio. Davanti ai nostri occhi la security sequestra (non chiedeteci come, perché rimane anche per noi un mistero) diverse bustine dal contenuto dubbio che non sapremmo analizzare, finché, spingendo e spostando, non decidiamo di prendere posto, finalmente, al piano di sopra, dove troviamo diverse persone che ostacolano la visuale stando in piedi appoggiati alla balaustra – veramente inusuale in un club londinese che nessuno della security li faccia spostare, quindi provvediamo noi (sperando che nessuno raccolga la sfida – ci avrebbero rotto il culo) urlando “OI! MOVE! WE CAN’T SEE SHIT HERE!”. Miracolosamente il bluff funziona, ma come avrete capito il concerto l’abbiamo quasi dimenticato a quel punto.
È un vero peccato perché, come si era potuto vedere nel concerto di quattro giorni prima al Rock En Seine (disponibile su YouTube) la band è eccellente e la setlist lo è altrettanto, portando un mix equo dei tantissimi album del biondo californiano, a questo punto all’apice della sua carriera. L’abbandono e l’incuria al quale è lasciata la un tempo gloriosa venue rende tristi (ed è evidente quando i riflettori illuminano tetto o muri) e la serata è piú o meno rovinata. Dopo un breve bis, Ty saluta e velocemente scompare, pronto per un after per il quale i ragazzi all’ingresso ci lasciano dei volantini.