Un vero viaggio – scrive Proust – non è cercare nuove terre; ma avere nuovi occhi. Nemmeno troppo nuovi, verrebbe da dire nel caso di Catania. Città sempre distrutta, salvata, ricostruita; e ancora uccisa, recuperata, rivestita. Vituperata da sé stessa, quando non ci hanno pensato altre genti, altre guerre, altre catastrofi. Città il cui simbolo è, per forza di cose, “u liotru”: l’elefante creato dal mago Eliodoro sulle cui origini scorrono fiumi di “si dice”. Un talismano il cui pachidermico culto, nell’ultimo decennio in particolare, ben sintetizza l’indolenza plenaria raggiunta con pochissimo sforzo dal capoluogo alle pendici dell’Etna. E che diviene, quando si suol parlare di musica rock, una recherche du temps perdu le cui madeleine sono in genere sempre le stesse. Quel concerto dei R.E.M. allo Stadio Cibali, con i Radiohead opening act; quel concerto dei Fugazi (più Uzeda) al porto; i tempi d’oro di Tortoise e Shipping News, gli stessi in cui i Rachel’s suonavano alla playa; i tempi del BaRock e dei Sonic Youth in piazza Dante; i tempi di Sonica, dei Coldplay a Misterbianco. Tempi lontani, insomma, molto più lontani di quanto effettivamente non fossero anche dieci anni fa. Ma d’altronde si sa: il tempo vive in Sicilia la sola dimensione eterna del ricordo. E il catanese, al quale in genere non basta la conditio dell’effettiva qualità d’una proposta, nutre il bisogno innato di sentire il profumo inconfondibile della grandeur, dell’evento. Egli è enternainer per vocazione, americano par héritage: prende tremendamente sul serio il fatto di abitare la cosiddetta Seattle d’Italia. E allora ci pensa Zanne Festival a farlo sentire finalmente a casa: gli porta l’America a un palmo di naso in tre comode rate, rianima il trascurato liafanti popolare e ridà lustro ad uno degli spazi verdi cittadini peggio utilizzati, il Parco Gioeni.
Si comincia il 20 giugno, con Fidlar e Black Lips. Le quattro pesti losangeline, introdotte a dovere dal surf trio di Jaguar & The Savanas, forniscono forse la performance più adrenalinica dell’intera rassegna. Zac Carper è una furia incontrollata: a dispetto di un parterre ancora notevolmente impreparato e ingessato, riesce coi suoi ad alzare la temperatura già incandescente attraverso instanthems come Cheap Beer, No Waves o Cocaine. Non esattamente della parrocchia straight edge, ma certo un buon regalo all’adolescente dentro di noi in perenne spolvero punk-rock. Penalizzati anche se non troppo da tale esuberanza, i Black Lips si affidano alla superiore qualità del proprio repertorio: si va dai primordi con la In The Red (Sea of Blasphemy, Dirty Hands) all’ultimo “Arabia Mountain” (Family Tree, Raw Meat), senza tralasciare classici come Katrina o Bad Kids. Buona la prima, dunque, in attesa dell’indiscussa Apocalisse.
Che giunge puntuale, in data 25.06.2013, con le angeliche (!) sembianze di Mr. Michael Gira e dei suoi Swans. Il coraggioso Gioele Valenti, in arte Herself, ha l’arduo compito di aprire uno show che – lo diciamo subito, a scanso di equivoci – farà parte ora e per sempre delle nostalgiche madeleine di cui sopra. I Cigni vivono un momento di forma strepitoso, mostrando a centinaia di siciliani non soltanto di essere una tra le più grandi band sulla faccia del pianeta (ci fossero mai stati dubbi in proposito), ma anche di avere ben pochi rivali quando il gioco si sposta sul fronte live band. Quasi tre ore di puro granito, d’impenetrabile wall of sound che getta i presenti in piena glaciazione uditiva, autentica devozione magmatica, completa adesione emotiva. Le sole Mother Of The World, Coward e la conclusiva The Seer (suonata assieme alla nuova Toussaint Louverture Song) appartengono alla discografia già nota del gruppo: se i restanti inediti preserveranno su disco appena la metà dell’impatto ottenuto dal vivo, saremo in presenza dell’ennesimo capolavoro per una formazione che – malgrado i continui cambi – non vuol proprio saperne di non essere seminale. Norman Westberg, Christophj Hahn, Phil Puleo, Chris Pravdica, Thor Harris, Michael Gira: grazie.
A otto giorni di distanza dalla brutale magniloquenza degli Swans, giunge infine la cerimonia di chiusura; portata principale del pasto: The Jon Spencer Blues Explosion. I primi a salire sul palco, però, sono gli autoctoni Long J, seguiti a ruota dai trevigiani New Candys. Questi ultimi, presa e restituita la lezione psych del rock anni ’60, la diluiscono in acque vagamente shoegaze per il piacere degli astanti, che ne apprezzano soddisfatti la buona lena. Quand’è il turno dei tre newyorchesi, la festa entra comprensibilmente nel vivo. A dispetto d’una qual certa ripetitività di registro, Spencer, Bauer e Simins sono la ciliegina sulla torta del programma. Dai fasti di “Orange”, rievocati attraverso le scoppiettanti Bellbottoms e Sweat, alla recente fatica “Meat And Bone” il passo è breve. La Blues Explosion non si risparmia, diverte e dà spettacolo per una più che degna conclusione all’insegna del miglior punk-blues in circolazione.
“Questo silenzio è stato devastante”, mi dice un amico non appena l’ultimo amplificatore si spegne, dopo la litania di Padre Gira. Vero: questo silenzio è stato devastante. E’ stato devastante assistere alla spregiudicata, inarrestabile privazione degli spazi, dei luoghi destinati alla condivisione e alla creatività. E’ stato devastante veder svilito, istituzione dopo istituzione, l’immenso patrimonio culturale che ci dovrebbe rendere, più d’ogni altra cosa, la nazione che non siamo mai stati. E’ stato devastante raccogliere le mura di Pompei sgretolatesi sotto la pioggia, a causa della pioggia. E’ stato devastante passare davanti a musei e teatri chiusi, e se non chiusi: vuoti; svuotati quasi mai di gente, ma della possibilità stessa di perpetuare serenamente il proprio lavoro. E’ stato devastante rinunciare alle grandi manifestazioni per le sagre di paese, alle associazioni meritevoli per inutili circolini di provincia. E’ devastante il fatto che la lettera d’un libero professionista, intitolata “L’Italia è morta, andatevene finché siete in tempo”, si diffonda con vertiginosa rapidità sui social network. E’ devastante leggere d’imprenditori impiccati, arsi vivi; di aziende chiuse e storie secolari vendute ai soldi d’altri. Tutto questo è devastante, sì; ma non può fermarci. Abbiamo bisogno di riferimenti, di modelli, di sapere che non è vero che denaro e Cultura (con la C maiuscola) si attendono infinitamente l’un l’altro come in una nuova, drammaticamente ironica pièce beckettiana. Che bisogna partire dal basso con quanto di più alto vi sia: l’Arte.
Anche se questo esula, naturalmente, dai compiti ben meno gravosi di Zanne Festival: un plauso a loro e a chi in ogni centro d’Italia, a suo modo e a suo tempo, non cessa d’essere quella scheggia impazzita che può mutarsi in scintilla. Bravi.