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Chelsea Wolfe

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Enigmatica e avvolta da un’aura oscura e aristocratica, Chelsea Wolfe è un’artista tanto trasversale che è impossibile confinarla in un solo genere. Non appartiene al nugolo delle wannabe-Bjork, tanto meno al folk femminile tutto voci fatate e fingerpicking, piuttosto la sua arte ha l’essenza gelida del black metal nonostante non ci sia mai fragore nei suoi dischi. Coniugando decadentismo poetico, post-metal, psichedelia e i tormenti della new wave, la Wolfe è riuscita a raccogliere consensi tanto tra gli hipster quanto tra i metallari più open-minded. Le basta ormai poco per diventare una delle cantautrici fondamentali del secondo decennio degli anni Duemila.

THE GRIME AND THE GLOW (2010) – La Wolfe è legata alla corrente weird-folk ma se ne affranca grazie a composizioni oblique e dal taglio sperimentale. Opera immatura affrontata comunque con forte personalità, quest’esordio connette il post punk a risonanze drone ed echi new wave. La scrittura è rude e aspra e trova in “Noorish”, figlia di PJ Harvey, e nei cerchi concentrici à la Debussy di “Benjamin” gli episodi più raffinati.

Brano consigliato: Noorish – In breve: 3/5

APOKALYPSIS (2011) – La maturazione attesa arriva ma va oltre le più rosee previsioni. È un album duro e astratto, vive sospeso tra i contrasti di delicate melodie vocali e oscure trame strumentali. Le canzoni hanno fisionomie sfuggenti e traggono tanto dal folk quanto dal desert rock, portando in dote un’anima gotica discendente di Nico e Siouxsie. L’artista californiana fa della semplicità del songwriting il suo vessillo e cava capolavori usando anche solo un verso, come la tormentata “Movie Screen”.

Brano consigliato: Tracks (Tall Bodies) – In breve: 4,5/5

UNKNOWN ROOMS: A COLLECTION OF ACOUSTIC SONGS (2012) – L’esordio su Sargent House è bagnato con questi nove brani acustici composti nei primi anni di carriera e circolanti su internet in versioni demo. Nonostante la spoglia bellezza di alcuni episodi (“Flatlands”, “The Way We Used To”, “Appalachia”) non splendono aurore sulla scena, non c’è traccia di redenzione e l’atmosfera è tormentata come nella tradizione del folk apocalittico a cui queste tracce, dolenti o nolenti, guardano. Prova di grande versatilità.

Brano consigliato: Flatlands – In breve: 4/5

PAIN IS BEAUTY (2013) – È l’album che spiazza molti. Una potenziale pietra dello scandalo evitata grazie alla capacità della Wolfe di restare se stessa pur cambiando pelle ancora una volta. È electro pop tetro e drammatico, un manifesto di dolore e sofferenza condito da testi suggestivi. La voce è rarefatta, carica com’è di riverbero, e si staglia su paesaggi sonori ricchi di elettronica in cui si affacciano fioriture barocche (“The Warden”), spasmi à la PJ Harvey (“We Hit A Wall”) e il surrealismo dei Cocteau Twins (“They’ll Clap When You’re Gone”). Il capolavoro è “The Wave Have Comes”, otto minuti e mezzo che hanno il decadente e amaro sapore dei versi di Rimbaud.

Brano consigliato: The Wave Have Comes – In breve: 4/5

ABYSS (2015) – L’ennesimo colpo dell’ineffabile Chelsea arriva in piena estate. Esce il 7 agosto e mentre il sole splende sulle spiagge a oscurarlo arrivano undici canzoni nere come la pece. È asfissiante e guarda ad “Apokalypsis” con la consapevolezza di “Pain Is Beauty”. Emerge in tutta la sua pesantezza una vena doom metal che trova senso compiuto in “Iron Moon” e “Dragged Out”, ma quando si sprofonda nell’abisso sono ballad crudeli a prendersi la scena, cuori di tenebra che esplorano le profondità del fragile animo umano.

Brano consigliato: Dragged Out – In breve: 4/5