Louisville è la città più grande del Kentucky. Può offrire pub, negozi e grattacieli, stazioni, strade. Può offrire anche, se si ha la sensibilità adeguata per recepirlo, un certo languore, una certa piega al ribasso nella percezione dell’esistenza. Qualcosa da catalizzare in suoni che non si potrà poi in futuro fare a meno di sentire come propri di luoghi vicini alle coste d’Islanda o d’Irlanda, del Nord Europa. Può offrire, insomma, ci siam capiti, gli Slint. O meglio, gli Squirrel Bait, dalle cui ceneri nascono gli Slint. E gli Slint sono uno di quei gruppi che quando li ascolti li riesci a concepire solo come alla fine di qualcosa, come se dopo non possa esserci nient’altro, l’Apocalisse, al massimo, ma è troppo. McMahan, Pajo, Waldford, Buckler. Quattro ragazzi qualsiasi, con quattro cognomi qualsiasi. Eppure nella loro musica sgangherata, che si argomenta quasi a caso, c’è, insieme, una cura algebrica delle armonie e un pathos urbano che entra fin dentro la pelle, fino a toccare i bulbi piliferi dell’emozione. Con questi quattro ragazzi qualsiasi, con questi due album e poco più il rock è offerto in sacrificio a qualcosa di più grande: si chiamerà post rock, perché le ceneri da cui nascono sono gli Squirrel Bait solo cronologicamente. Le ceneri da cui nascono, in verità, l’edificio che demoliscono, è il rock tutto, di cui loro ridisegnano il profilo.
TWEEZ (1989)
Gli Slint pubblicano il loro primo lavoro nel 1989. Si chiama “Tweez”: non è ancora una rivoluzione, ma è un ottimo disco. “Tweez” affonda le mani nella tradizione post hardcore americana degli ’80. Si sente la presenza di Albini, che da un lato produce tecnicamente l’album (schiarisce le chitarre, gonfia il basso), dall’altro è storicamente influente in quanto creatore dei Big Black: canzoni come Carol rimandano all’efficacia di “Atomizer”. Ma il post hardcore è recuperato solo come punto di partenza, macchina in corsa da cui bisogna lanciarsi fuori per non schiantarsi: ne rimane la grinta, la strumentazione, l’atmosfera cupa, ma c’è una sublimazione che porta o a un alleggerimento quasi scherzoso (Kent) o a un rallentamento cardiaco (Rhoda). Ciò che viene fuori è un post hardcore sudato, fatto di tempi dispari, intrecci delle chitarre anti-retorici ma allo stesso tempo goliardici, il parlato/urlato di McMahan. Il post hardcore comincia a guardarsi dentro, ad assumere la tragedia di Charlotte o la schizofrenia di Kent (“Don’t worry about me / I’ve got apet / I’ve got a Christman tree / Inside my head”). Comincia a parcheggiare, sotto alberi secchi.
Brano consigliato: Carol – In breve: 4,5/5
SPIDERLAND (1991)
Ma se “Tweez” prometteva, “Spiderland” realizza. Ancora germe primitivo ma primo è il post hardocre (canto rabbioso, matrice punk arcaica, chitarre robuste ma minimali, strumentazione basso-batteria-doppia chitarra), ma i suoi elementi sono maggiormente sublimati, dematerializzati, per toccare una forma di effusione rock notturna ma anti-romantica, anti-titanica ma non gozzaniana, malinconica ma non (solo) isterica. Uno slowcore non proprio slowcore, per una musica che, più che la strumentazione rock, cerca di attraversare il rock stesso per raggiungere una forma di espressione più intima, cupa, che ha perso il terreno e cerca di fondarne un altro, in una specie di dérèglement rimbaudiano ma dopo che la Storia ha visto l’atomica, e Hitler, e i centri commerciali newyorkesi: è, insomma, il superamento del rock, il post rock. Gli Slint vanno verso il cuore del post hardcore e lo afferrano con la mano, fino ad accarezzarlo, contenerlo, fagocitarlo ed espellerlo in suoni sconnessi ed elegantissimi che ormai sono altro della loro matrice originaria. Breadcrumb Trail e Nosferatu Man rimandano di più a “Tweez”, essendo di fatto delle esplosioni, ma se ne discostano nell’essere contemplazioni: esplosioni contemplative. Don, Amar è un confessionale viaggio di sussurri e due chitarre che si intrecciano, Washer, la loro canzone più famosa, è come suonerebbe un jazz privato del gioco, un blues privato del lamento, rock privato della retorica. “Spiderland” è uno degli album più importanti dell’intera storia del rock, perché prova a distruggerlo per rifondarlo.
Brano consigliato: Washer – In breve: 5/5
SLINT (1994)
L’esperienza degli Slint è, dall’inizio alla fine, quella di un gruppo di strada, di musica fatta con e per il cuore. Si sciolgono presto, lasciano poco ai posteri, anche se “Spiderland” da solo vale discografie intere. Eppure, dopo il capolavoro del ’91 ancora una piccola appendice ci permette di ascoltarli: è l’EP omonimo, di sole due tracce, senza la voce. Loro stessi sentono che il disco precedente ha cambiato il modo di pensare il rock, e se Glenn, inedita, prosegue l’idea di alternanza tra arpeggi intrecciati e power chords distorti, Rhoda è un rifacimento post-“Spiderland” dell’ultima traccia di “Tweez”, resa più isterica e incisiva: la chiusura caoticamente noise segna il capitolo finale di una delle tante esperienze fulminee e pure fondanti cui il rock ha assistito, e, fra queste, la loro occupa uno dei vertici: gli Slint, macchina parcheggiata degli anni ’90.
Brano consigliato: Rhoda – In breve: 4/5