Quando una band cambia etichetta discografica è un po’ come quando si cambia partner nella vita sentimentale. Arrivano variazioni sostanziali in parte delle proprie abitudini e spesso anche nei gusti, nuove frequentazioni e, qualche volta, persino un nuovo stile nell’abbigliamento. Con in agguato il rischio di non aver cambiato “in meglio”, cosa che ovviamente non è possibile sapere prima altrimenti grazie al ***** che si decide di cambiare. Per gli A Place To Bury Strangers, invece, il passaggio dalla Mute alla Dead Oceans sembra aver segnato il definitivo trampolino di lancio. La nube di ep pubblicata nel corso degli anni e i due precedenti lavori (l’omonimo del 2007 ed “Exploding Head” del 2009) avevano già messo in luce potenzialità di un certo spessore, ma è questo autoprodotto Worship a fungere da vero spartiacque per la loro carriera. Nella pratica, ciò che propone oggi il trio newyorkese non è molto dissimile da quanto veniva proposto ieri, per lo meno dal punto di vista delle influenze: scroscianti chitarre noise (You Are The One, Why I Can’t Cry Anymore) e occhi puntati giù in basso sulle punte delle scarpe (Mind Control, Revenge, And I’m Up). Cos’è, allora, che ci fa compiacere di “Worship” al punto da ritenerlo il passo decisivo per gli APTBS? L’approccio nero, nerissimo, che pervade l’intero album, in barba al periodo estivo in cui viene pubblicato (Fear, Dissolved, Slide). Le venature industriali che in passato erano solamente accennate e che invece qui sono messe in bella mostra (Alone). La facilità con cui Oliver Ackermann e soci attraversano generi e stili, virando ora ad est ora ad ovest senza farsi alcun problema, cosa che magari avveniva nel recente passato in cui la band cercava probabilmente di trovare una propria univoca dimensione. Ed invece sta proprio qua la bellezza di “Worship”: la sua trasversalità, il suo infischiarsene delle varie etichette revivalistiche che gli verranno affibbiate, il suo percorrere esclusivamente sentieri di “gusto” e non di mera “opportunità”. Oliver, Dion (Lunadon, che di recente ha preso il posto di Jono Mofo al basso) e Jay amano friggere i propri amplificatori e tormentarsi/vi le orecchie durante i live, con feedback mortiferi, drum machine e quella voce proveniente direttamente dall’oltretomba a condire il tutto. E se ne fregano bellamente di uscire fuori puliti e inquadrabili, gli A Place To Bury Strangers sono scorretti e se ne vantano.
(2012, Dead Oceans)
01 Alone
02 You Are The One
03 Mind Control
04 Worship
05 Fear
06 Dissolved
07 Why I Can’t Cry Anymore
08 Revenge
09 And I’m Up
10 Slide
11 Leaving Tomorrow
A cura di Emanuele Brunetto