Nonostante si sia provato in tutti i modi a farli bollire nel grande calderone del grunge, Greg Dulli e i suoi Afghan Whigs non hanno mai fatto pienamente parte di quell’epopea: vuoi per una questione meramente geografica (Cincinnati è piuttosto lontana da quell’ormai mitologico Nord-Ovest degli Stati Uniti), vuoi soprattutto per un approccio più vicino per certi versi a New Orleans che a Seattle. Ad essere onesti, oltretutto, non è che loro stessi abbiano mai sventolato il vessillo di flanella con convinzione. Ed è probabilmente anche per questi motivi che Dulli è stato, fra i protagonisti di quegli anni, uno di quelli che ne è uscito meglio, riciclatosi in mille altri progetti e collaborazioni, nessuna delle quali dal basso profilo.
Affermare dunque che in questo Aprile 2014 gli Afghan Whigs siano tornati alla ribalta è quantomeno azzardato, perché nella sostanza la band era ed è tremendamente legata alla figura di un Dulli che non è mai scomparso alla vista, ha continuato a produrre, ha continuato il suo percorso tenendo sempre ben fisso in mente il punto di partenza, non ponendo mai davvero la parola fine alla vita del suo primo amore.
Ma sedici anni (tanti ne sono passati da “1965”, pubblicato nel ’98) sono pur sempre sedici anni, quindi la curiosità di ascoltarli oggi, gli Afghan Whigs, era davvero tanta. Do To The Beast è ciò che potrebbe deludere se si continuasse a pretendere il Dulli di “Congregation” o “Gentlemen”. Allo stesso tempo, può anche essere un lavoro esaltante per chi ha seguito la parabola artistica del buon Greg negli ultimi lustri, perché a pensarci bene è questa l’unica razza di album che poteva tirar fuori il Dulli odierno, il Dulli forte dell’esperienza Twilight Singers, della sinergia con Mark Lanegan e di tanto altro.
Basta ascoltare Matamoros, ad esempio, confezionata in un involucro lucidissimo che fa a pugni con le sonorità primordiali della band. Oppure il singolo Algiers che sa tanto di Calexico e non soltanto per il titolo uguale a quello dell’ultimo lavoro firmato da Burns, Convertino e gli altri. Can Rova è una ballad di scuola Twilight Singers fino al midollo, così come The Lottery che – pur non convincendo appieno – fa tornare prepotentemente alla mente almeno un paio dei pezzi firmati dall’altro progetto di Dulli.
Manca il chitarrista Rick McCollum (fuori dalla formazione per non meglio specificati problemi personali) e, duole dirlo, la cosa si nota parecchio, perché il suo prezioso lavoro alla sei corde caratterizzava e non poco il sound degli Afghan Whigs: così solo a tratti – vedi Royal Cream – si risentono certe sferzate scurissime marchio di fabbrica della band. Per il resto sono divagazioni (il meraviglioso piano di It Kills e Lost In The Woods) che evidenziano più la personalità di Dulli che il lavoro collettivo di un gruppo.
In definitiva, “Do To The Beast” non sarà certamente un crack di questo 2014 e non può competere in quanto a ispirazione coi fasti nineties della band, ma ha dalla sua una genuinità d’intenti che crediamo sia andata oltre il puro amarcord e una qualità di realizzazione figlia dell’esperienza ultraventennale di Dulli. Oltre alla circostanza, per nulla irrilevante, di aver segnato il ritorno degli Afghan Whigs sotto l’egida della Sub Pop. Insomma, gli ingredienti per delle grandi esibizioni dal vivo ci sono tutti e siamo certi che anche questi nuovi brani non sfigureranno affatto se incastrati nel contesto giusto.
(2014, Sub Pop)
01 Parked Outside
02 Matamoros
03 It Kills
04 Algiers
05 Lost In The Woods
06 The Lottery
07 Can Rova
08 Royal Cream
09 I Am Fire
10 These Sticks
IN BREVE: 3/5