Lo scorso Settembre è uscita nelle sale “Yesterday”, la pellicola diretta da Danny Boyle che racconta un’apocalisse in versione pop, causata dall’amnesia circa l’esistenza dei Beatles con conseguente rapida ascesa al successo di un timido e giovane artista, rimasto tra i pochi eletti in grado di ricordare a memoria ogni singolo successo dei quattro di Liverpool. Lasciando da parte le considerazioni più scontate, relative agli effetti tragicomici di pezzi intoccabili riarrangiati e reintitolati con uno slang da terzo millennio, il film induce a pensare che le conseguenze derivanti dal non poter ricorrere a una memoria virtuale potrebbero essere ben più agghiaccianti del non aver mai avuto – tra gli altri – i Coldplay.
Ad esempio, cosa ne sarebbe dei ricordi musicali se di punto in bianco non esistessero più infiniti modi e possibilità di ricerca? Quanti riuscirebbero a eseguire a memoria testi, accordi, melodie, strutture non di tutto lo scibile sonoro ma, quantomeno, di ciò che a oggi viene considerato un sapere musicale scontato e imprescindibile? Con un’abbondante dose di fiducia nel genere umano, la risposta è: in pochi o comunque molte meno persone di quanto noi stessi possiamo immaginare.
Questa fatica di ricreare dentro la mente qualcosa che non si sia ingurgitato involontariamente, è la sfida che si auto infligge la compositrice danese Agnes Obel con il suo quinto album: evocare un suono, un sentimento, un mondo proprio, senza alcuna interferenza o influenza esterna, sfruttando unicamente i suoi ricordi e le sue percezioni. Una Myopia autoproclamata che si compie strizzando gli occhi fino a chiuderli del tutto, come nel sonno, come nel sogno, come nella morte.
E “Myopia” è una discesa verso gli inferi attraverso un mare color avorio. La sua formulazione è abbastanza semplice, come del resto i precedenti lavori della Obel (“Philharmonics” del 2010, “Aventine” del 2013 o lo stesso “Citizen Of Glass” del 2016), stesso numero di tracce, identici intervalli tra interludi strumentali e tracce liriche, stessa formazione recente: ai violoncelli Kristina Koropecki e Charlotte Danhier, John Corban al violino.
Agnes compie una scelta abbastanza chiara, quella di rimanere fedele al suo suono, giocando con pochissimi strumenti, alternando silenzi a tracce vocali, senza apportare alcuna forma di sperimentazione ulteriore rispetto al passato. Ciononostante “Myopia”, con i suoi paesaggi di pianoforte e voci di cristallo, ha un immenso potere descrittivo oltre che narrativo: un solstizio d’inverno nell’emisfero australe in cui i trionfi di luce (Broken Sleep Myopia), si intersecano con toni opachi e corpi gelidi (Camera’s Rolling, Island Of Doom, Won’t You Call Me). A intervalli regolari, i tre interludi strumentali Roscian, Drosera e Parliament Of Owls sono intrisi di quel neoclassicismo con cui la Olsen è riuscita meravigliosamente a sfidare il più impietoso degli algoritmi virtuali.
Il lavoro di Agnes Obel, nel tempo, è cresciuto diventando sempre più denso, ma la sua bellezza inquietante a metà tra due mondi, Thomas Newman da un lato e Danny Elfman dall’altro, lo rende difficile se non impossibile da incasellare dentro una playlist di Spotify. Durante queste settimane folli e nevrotiche, in cui la fobia sociale da contagio sembra quasi un’attitudine naturale, l’esperienza di ascoltare fuori, per strada, “Myopia” fa in modo che tutto sembri meno surreale o, forse, è proprio il contrario.
(2020, Deutsche Grammophon)
01 Camera’s Rolling
02 Broken Sleep
03 Island Of Doom
04 Roscian
05 Myopia
06 Drosera
07 Can’t Be
08 Parliament Of Owls
09 Promise Keeper
10 Won’t You Call Me
IN BREVE: 4/5