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Aldous Harding – Designer

Un arpeggio di chitarra sommesso e versi dall’austera enigmaticità salutavano il sophomore di Aldous – al secolo Hannah – Harding, consegnando al 2017 un disco da incastonare nelle parti alte delle classifiche di fine anno. Un disco melanconico, “Party”, fieramente cupo, che sembrerebbe trovare in Designer un suo naturale successore, nei toni e nelle atmosfere, vista l’assenza totale di luce e di colori sulla copertina dell’album.

Il terzo capitolo discografico della cantautrice neozelandese, però, è un tessuto di pregevole fattura con cui la stessa ricama nove abiti musicali – dieci nella versione giapponese – che smontano l’apparente buio. Ed è così che l’alt-folk concettuale della Harding, impreziosito dai suoi tipici saliscendi vocali, manifesta maggiori aperture verso luoghi sonori più marcatamente melodici, relegando i toni cinerei del passato a pochi isolati momenti del nuovo lavoro. A dimostrazione del valore dell’attività svolta per la realizzazione del predecessore, anche per questo nuovo disco l’artista oceanica ha scelto di incidere in suolo britannico, a Bristol, con John Parish in cabina di regia.

Il cambio di registro avvertito in “Designer” è guidato dal lavoro del produttore e musicista inglese, non nuovo a questo genere di soluzioni: riuscire a generare forme di esaltazione dell’estro compositivo attraverso un sapiente bilanciamento tra parti strumentali e vocali. A tal proposito si pensi a gemme del calibro di “To Bring You My Love” (1995) e “Let England Shake” (2011) di P.J. Harvey oppure a “It’s A Wonderful Life” (2001) degli Sparklehorse del compianto Mark Linkous.

Il disco è stato preannunciato da due singoli, The Barrel e Fixture Picture, che rappresentano un po’ uno spartiacque sia con il passato sia con una seconda parte dell’album più sommessa e meno vibrante di sonorità ìlari. The Barrel si apre con un delicato arpeggio di chitarra supportato nel bridge da un acuto ottone. Da qui si staglia il criptico ritornello su cui si adagia una melodiosa linea di piano, presente anche sulla coda del pezzo.

Fixture Picture, secondo singolo nonché brano d’apertura del disco, genera un’atmosfera che si posiziona a metà strada tra lo spleen degli accordi di chitarra suonati nei versi e l’ariosità delle aperture strumentali del ritornello e del suo strascico. Atmosfera confermata, tra l’altro, dal testo: parole che sembrano rivolgersi ad un interlocutore lontano (“Fixture picture / I’ve got it, I’m on it / You’re in it, I’m honored”), volte a generare una tensione emotiva celata, tuttavia, dall’ermetismo concettuale della Harding.

Un altro soave intreccio sonoro tra piano e chitarra caratterizza Treasure, il brano più armonioso del lotto. Una melodia da perfetta ballad pop/folk che fa emergere tutta la classe compositiva di Hannah, non così lontana da quella di cantautrici più affermate come Chan Marshall, Leslie Feist o la stessa Polly Jean Harvey. Damn e Pilot, invece, si fanno portavoce di una seconda parte di disco più silenziosa, più tenue, che punta maggiormente ad un concettualismo sonoro fatto di pochi accordi di piano eseguiti in maniera incessante, ricordando diversi momenti del precedente “Party”.

“Designer”, in definitiva, ci consegna un’artista consapevole, una giovane donna non ancora trentenne che si destreggia come una veterana in questo fitto sottobosco cantautorale. “It opens up like height under a pilot” recita il verso conclusivo del disco: Aldous Harding l’altezza la sente ma la manovra come un pilota esperto.

(2019, 4AD)

01 Fixture Picture
02 Designer
03 Zoo Eyes
04 Treasure
05 The Barrel
06 Damn
07 Weight Of The Planets
08 Heaven Is Empty
09 Pilot

IN BREVE: 4/5

Nasco a S. Giorgio a Cremano (sì, come Troisi) nel 1989. Cresco e vivo da sempre a Napoli, nel suo centro storico denso di Storia e di storie. Prestato alla legge per professione, dedicato al calcio e alla musica per passione e ossessione.

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